Regia di Michael Powell vedi scheda film
La ripresa cinematografica o fotografica come espressione di un rapporto solitario ed esclusivo col mondo: catturare un'immagine è come conquistare al volo un'angolatura privata, della quale si può essere morbosamente gelosi. Gli occhi spalancati – intesi come organi, obiettivi o riflettori - sono il leitmotiv di questa storia, in quanto sedi di un'avidità visiva imperiosa e concentrata sulla "preda", che, in quanto tale, deve essere colta nei momenti in cui appare sorpresa, o è assalita dal terrore. Altra cosa è il cinema dei teatri di posa, delle scene costruite ad arte, con gesti e movimenti "finti", perché non "sentiti", ma, semplicemente, "fatti": il set produce solo immagini piatte e fasulle, dietro le quali non si avverte lo spessore della vita. È quest'ultimo, invece, il vero oggetto del desiderio, di cui il filmato è soltanto la fugace e superficiale proiezione; è il tessuto, pulsante d'istinto, che si nasconde al di sotto dell'immagine, e, per questo, è meglio percepito da chi non vede. In questo film, la scopofilia con la macchina da presa non è una malattia, e nemmeno una maniacale forma d'arte, bensì una crudele, possessiva ed aberrante forma d'amore.
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