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L'occhio che uccide

Regia di Michael Powell vedi scheda film

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La recensione su L'occhio che uccide

di daveper
9 stelle

Fino a che punto può spingersi lo sguardo? Qual è la responsabilità morale di chi osserva?

La telecamera diventa una finestra sull'anima del protagonista e per estensione, sull'anima stessa dello spettatore. Se il cinema è l'arte del vedere, qui Powell trasforma la macchina da presa in un oggetto carico di potere: non più un mezzo neutrale di riproduzione, ma un'arma in grado di penetrare la psiche, di svelare i segreti più oscuri e inconfessabili dell'essere umano. La telecamera di Mark Lewis diventa un catalizzatore del suo trauma, un prolungamento delle sue ossessioni infantili e della sua perversione. Attraverso l'obiettivo, Mark non solo osserva, ma domina, imprigionando le sue vittime in un quadro in cui l'ultima immagine che vedono è quella di loro stesse, intrappolate nel momento estremo della morte. L'idea che la macchina da presa possa sondare la parte più profonda e nascosta dell'individuo è resa ancora più inquietante dal fatto che tale sguardo sia sempre moralmente compromesso. Il punto cruciale è che lo sguardo della macchina da presa non è mai neutrale. Quando Mark guarda attraverso la telecamera, la sua prospettiva è contaminata dalle sue pulsioni e dai suoi traumi. In un contesto più ampio, il film di Powell invita a riflettere sulla natura stessa del cinema e del voyeurismo. Guardare non è mai solo un atto passivo; implica sempre una forma di partecipazione e, in certi casi, di complicità. Quando il pubblico osserva ciò che accade sullo schermo, viene messo di fronte al proprio desiderio di vedere, al piacere (o al disagio) che ne deriva. La macchina da presa, dunque, non solo rivela la profondità nascosta del personaggio, ma obbliga lo spettatore a confrontarsi con la propria moralità. 

"Peeping Tom" evoca con precisione inquietante quella sensazione viscerale di essere spettatori non autorizzati, di assistere a qualcosa che non dovremmo vedere, gettandoci nel cuore oscuro della natura voyeuristica del cinema stesso. Michael Powell, con la sua regia audace e provocatoria, non si limita a raccontare una storia di orrore psicologico; ci costringe a riflettere sulle dinamiche tra chi guarda e ciò che viene guardato, ponendo in discussione l'etica stessa dello spettatore.

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