Regia di Federico Fellini vedi scheda film
Altro capolavoro di Federico Fellini.
«Però è vero che ci sta una giustizia a questo mondo. Uno soffre, ne passa di tutti i colori, ma poi viene il momento d'esse felici per tutti»
Cabiria sembra essere una creatura discesa dal cielo o da un altro mondo. In una Roma dove tutti sono ben consapevoli dell’immutabilità fatale del proprio destino, Cabiria è l’unica che crede fermamente in un futuro diverso, lontano dall’infamia che il suo mestiere significa. Nella sua semplicità è quindi donna di dilanianti conflitti. C’è conflitto tra la natura sua – pura - e di chi la circonda: prostitute, papponi, sfruttatori, ladri, è tutta un’indistinta fanghiglia viscida, e pure quei pochi personaggi positivi che se ne discostano, come la sua amica Wanda, sono rassegnati al peggio. Così pure c’è divergenza fra il suo essere esteriore e la sua essenza, una divergenza denunciata fin dalla prima sequenza. In quel momento lo spettatore non conosce nulla di Cabiria: vede solo una donna spensierata e innamorata. Un po’ come se fosse planata proprio in quel momento da un altro universo senza conoscere nulla della sua effettiva condizione di vita.
Cabiria tenta disperatamente di emendarsi da ciò che altri (la sua famiglia? la povertà? il caso? L’Italia del dopoguerra?) hanno disposto per lei. Si serve di diversi mezzi, volontariamente e involontariamente, per pervenire al suo scopo, chiaramente in modo vano:
- Il vero amore, che in una struttura disgraziatamente circolare compare sia all’inizio sia alla fine della pellicola, e si conclude nella medesima maniera, con un furto ai suoi danni, come a significare che per Cabiria non c’è speranza di redenzione, che qualunque percorso Cabiria possa tentare di imboccare, il punto di arrivo sarà sempre uno solo.
- Una notte nella Roma bene in compagnia di un famoso attore. Anche qua chiaramente Cabiria fa la parte del pesce fuor d’acqua: uomini e donne, al night in cui viene invitata, sembrano mummificati nei loro impeccabili abiti da sera, anche loro stanchi della recita che giornalmente raccontano al mondo e a se stessi. L’unica scintilla di vitalità e di vita nel locale è proprio data da Cabiria. Quando il divo la liquida per tornare a intendersela con la sua amante, sembra sinceramente desolato. Si vergogna di quanto sta facendo, ma ciò non gli impedisce di farlo (come più avanti succederà al promesso sposo di Cabiria, Oscar). Una sana questua e una foto come souvenir per lavarsi la coscienza, e le differenze sociali vengono ristabilite, se non allargate. Cabiria si rende conto in questo segmento, guardando dal buco della serratura il divo baciare un’altra donna – più bella e più giovane di lei - che il bel mondo di cui è stata fortuita spettatrice in questa sera, non le apparterrà mai e che al più, potrà continuare ad osservarlo solo dal buco di una serratura.
- La processione al santuario. Siamo forse di fronte alla sequenza più straordinaria della pellicola. Cabiria affida le sue segrete speranze all’ultraterreno, e come al solito il solo baluginio di autenticità è lei. I canti intonati a squarciagola dai fedeli sono figli dell’ignoranza e della superstizione più che della fiducia in un futuro migliore, più che di una reale fede in qualcosa; tutt’intorno, i commercianti delle bancarelle ne approfittano per speculare sopra le speranze altrui.
- Il vino. In stato di ubriachezza, Cabiria prende atto dell’inutilità del pellegrinaggio al santuario e medita di vendere la casa e di partirsene.
- L’ipnosi. A Cabiria viene fatto credere da un mago che un uomo ricco e perbene la voglia sposare. Ovviamente è tutto falso, ed ancora una volta Cabiria si distingue per la sua stupita ingenuità rispetto a un mondo che si prende apertamente gioco di lei.
Cabiria quindi cerca una soluzione al suo dilemma nello stereotipo sociale (il matrimonio, le frequentazioni importanti), nella religione (la droga storicamente più potente), nel distacco dalla realtà (l’ubriachezza e l’ipnotismo). Quando tutti i suoi tentativi di fuga dal quotidiano evaporano in un beffardo fallimento, pensa alla forma di evasione suprema dal reale, ovvero alla morte, come la sua alter ego Gelsomina ne La strada. Ormai ha perso tutto, anche quel poco che aveva e di cui menava sì tanto vanto. Tuttavia, a diversità di Gelsomina, la tempra di Cabiria è immarcescibile e quindi ella si avvia cocciutamente verso nuove avventure, nuove delusioni, nuove sofferenze. La conclusione non può ad ogni modo dirsi ottimistica: Fellini cristallizza tutti i suoi personaggi in un’immobilità perpetua, e anche quell’unico personaggio che si spende, si batte, s’adopera con ogni mezzo, lo condanna ad una crudele sconfitta. Cabiria è come una farfalla imprigionata in una campana di vetro: mentre in basso s’ammassano le formiche che si contentano di sopravvivere, lei vola verso la luce del sole ma sbatte invariabilmente contro il vetro. E tra l’altro, la luce che lei crede essere quella del sole, è artificiale e falsa: tutto quello verso cui si muove è illusorio e fallace. La salvezza concreta non appare mai a Cabiria, sempre che esista: appaiono unicamente suoi finti simulacri. Eppure, il resistere di Cabiria, col sorriso e con il pianto, nell’illusione e nella malinconia, fra lo scherno e lo schiaffo, ci sembra assai più nobile di una qualsiasi felicità gratuita.
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