Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film
Qualche buona intuizione non salva Magnifica presenza dal conseguire un mesto anonimato.
"Finzione, finzione" pronuncia nel finale Elio Germano: il regista crede boriosamente di poter indurre nello spettatore la medesima “magia” della rappresentazione di un piccolo mondoteatro antico. Ma lui nemmeno la scalfisce, rimane sospeso sulla superficie smaltata delle cose, al maquillage scenico e ad uno speculativo recupero agiografico del passato.
La vacuità dei sensi sopiti, che s’agitano schizzati e rumorosi ad abbondare, a caricare, a generare infine, appunto, l’irrilevante leggerezza dell’apparire.
Occasione sprecata per Özpetek, perché il soggetto, seppur non sconvolgente in quanto ad originalità, è valido. Lo sviluppo fattone però è deficitario, soprattutto confusionario e non incisivo, poco concentrato altresì sulla definizione dei personaggi che paiono figurine stantie di una collezione come quella tenuta dal protagonista, con tanto di doppioni, pezzi inutili e uno solo veramente pregiato (Anna Proclemer).
Oltretutto alcune incongruenze rivelano una sceneggiatura “polverosa” e claudicante, specie in quelli che sono i soggetti fantasmatici che infestano la casa (sono “pensanti” e interagenti, eppure nessuno di loro si rende conto che non stanno vivendo il proprio tempo; e poi, come fanno a entrare nel bus, che per caso il conducente ha tenuto apposta le porte aperte?). Essi peraltro non sono efficacemente delineati nella loro natura e storia e senz’altro non ben sfruttata è la materia (passibile di ampio e vario svolgimento) dell’incontro/scontro con il presente. Assumono sostanzialmente l’inconsistente status di elementi decorativi e derivativi: ci sono perché c’è una storia da raccontare, “esistono” perché ci sono; kafkianamente legati a un processo narrativo d’incomprensibile portata.
Il protagonista stesso, interpretato quasi col pilota automatico da un Elio Germano spento, è caratterizzato in maniera non convincente, è come se si fosse pescato a casaccio in una rete di modelli prestampati e quindi fatto un collage. Poi - va detto - la sua acclarata condizione di stalker (come definire altrimenti l’ossessivo comportamento ai danni di un vecchio amore occasionale?) ed una serie di atteggiamenti che compongono una personalità artefatta e scarsamente credibile fa quasi sorgere il sospetto che, semplicemente, abbia le “visioni”. Questo è il frutto del perenne agire per accumulo e deviazioni, e si evita un vero, ragionato approfondimento.
Forse se si fosse tenuto, fino in fondo, un registro più grottesco, avremmo avuto una pellicola migliore, meno d’”autore” ma con più coraggio.
La risoluzione/rivelazione finale, potenzialmente interessante, brillante, risulta poco solida, poco ficcante, i suoi effetti sbiaditi da una conduzione registica incerta, troppo distratta dai bulimici intenti di enfatizzare immagini e suoni. Così la resa è fiacca, saturata da continue suture e sovraincisioni mascheranti e imbellettanti.
Della serie: il tappeto (visivo) dava un tono (vistoso) all’ambiente.
In tale direzione è sicuramente da inserire la “stramba” apparizione della “badessa” (Platinette): oltreché poco chiara risulta assolutamente inutile (se non, forse, a generare un po’ di chiacchiericcio). Di innesti inutili, in verità, ce ne sono anche altri, ed altrettanto inutile è soffermarcisi.
A carico di Özpetek, inoltre, va imputata una noia che affiora “simpaticamente” soprattutto nella parte centrale, tale da causare uno stato d’intorpidimento beato, se non fosse per l’irritante e pesante (e pure poco coordinata) musica che disturba la beatitudine e istiga pensieri pericolosi.
Alla fine, del film-omaggino del regista italo-turco rimane giusto l’interpretazione di Anna Proclemer: pochi minuti, sguardo e voce taglienti, classe infinita e una carica espressiva che non ha riscontri nell’odierno panorama nazionale.
Più che doveroso indirizzarle quel "solo l'Arte sopravvive" che lei stessa, potentemente, declama.
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