Regia di Beck Cole vedi scheda film
Una persona esce di prigione. Sono molti i film che iniziano così. Ma sono pochissimi i film che hanno come protagonista una donna aborigena. A questa categoria, minoritaria per nascita ed emarginata per destino, appartengono quasi tutti personaggi di questa storia. I nativi americani non sono l’unico popolo sottomesso dalla colonizzazione europea. In Australia ci sono tante Karen, con la pelle olivastra, il profilo camuso, i capelli lisci e neri. Alcune, come lei, finiscono in carcere, sono dedite all’alcol e alla droga. Perdono la custodia dei figli e la stima delle famiglie di origine. Riacquistare la libertà, dopo i lunghi mesi passati in carcere, significa, quasi inevitabilmente, ritornare allo sbando, vagare senza punti di riferimento, senza un posto dove andare, né qualcuno da rivedere. Però è possibile tentare di rifarsi una vita. Beck Cole, in questo suo primo lungometraggio, racconta la storia di un approccio all’esistenza, che ricomincia da zero, in assenza di un passato a cui potersi riallacciare. Karen non ha mai imparato un mestiere, ha una figlia piccola che non può ricordarsi di lei, non ha un amore, un’amicizia, né, in generale, alcunché di cui essere fiera. Le basta la prima settimana trascorsa “fuori”, piena di disagio e di umiliazioni, per rendersi conto della vastità del nulla da cui è circondata. La madre la disprezza, suo fratello minore è una dolorosa memoria d’infanzia, affidata all’iscrizione su una tomba. Ad attenderla ci sono solo distanze invalicabili e l’azzardo di incontri casuali, le uniche occasioni di sfuggire, almeno temporaneamente, alla solitudine. Per lei è inutile cercare, ed è impossibile scegliere: una società piena di richieste e di pregiudizi non è pronta ad accogliere la sua “nullità”, e Karen si vede costretta a prendere quel minimo che le viene offerto, vitto e alloggio in una casa d’accoglienza, e la compagnia delle altre ospiti della struttura, tutte disgraziate come lei. Il reinserimento è un percorso stretto, che ti incasella e ti rende anonimo, ti pone sotto esame e ti consente di riscattarti solo un pizzico alla volta. L’aria aperta ha il sentore di quella viziata, per chi non è in grado di respirarla a pieni polmoni. Occorre il giusto tempo per assimilare la novità, e verificare, con l’esperienza, che qualcosa è davvero cambiato. Karen è la prima a doversi convincere di essere effettivamente diventata un’altra: non quella giovane spaesata che continua a bere e a fumare e si concede al primo uomo che le rivolge la parola, ma quella che vuole davvero mettersi alla prova, anche se alle spalle ha solo storie da dimenticare. Difficile sapere se si è sulla giusta strada, quando i riscontri concreti vengono a mancare: i risultati non possono venire, perché non si possiedono i mezzi per costruire nulla, e le conferme sono gli altri ad esigerle da te. Karen brancola nel buio, ma con determinazione, sa quello che vuole, anche se esita ad immaginarlo come raggiungibile. Questo film mescola il romanticismo del sogno di rinascita e dell’utopia sentimentale con un realismo grezzo e sfilacciato: la sostanza informe che si rimescola nell’animo di chi si avvia verso un orizzonte vuoto, armato solo della forza di un’istintiva combattività. Ossia dell’energia derivante dal semplice fatto di esistere, e nulla più. Here I Am. Eccomi qui.
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