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Die Klage der Kaiserin

Regia di Pina Bausch vedi scheda film

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La recensione su Die Klage der Kaiserin

di yume
8 stelle

Primo e unico lungometraggio di Pina Bausch, Die Klage der Kaiserin è un’esperienza onirica tradotta in linguaggio filmico

Ah, tutto è simbolo e analogia!

Il vento che passa, la notte

che rinfresca

sono altra cosa che la notte e il vento

ombre di vita e di pensiero.

Tutto ciò che vediamo è altra cosa.

La marea vasta,

la marea ansiosa,

è l’eco di un’altra marea che sta

dove è reale il mondo che c’è.

Tutto ciò che abbiamo è

dimenticanza.

La notte fredda, il passare del vento

sono ombre di mani i cui gesti sono

l’illusione madre di questa

illusione.

Tutto trascende tutto

ed è più o meno reale di ciò che è.

F. Pessoa

 _________________________________

Primo e unico lungometraggio di Pina Bausch, Die Klage der Kaiserin è un’esperienza onirica tradotta in linguaggio filmico, non ha termini di confronto che la collochino in un genere definito, benchè di richiami sia denso ( “Un cinema-limite, destrutturato e affascinante, diluito e morboso alla Tarkovskij… sfondi di piscine hollywoodiane, alla David Hockney … vagamente surrealista nelle allegorie persino ridondanti, e altrove povero, crudo e documentario, strade, case e gente di Wuppertal, anatomia di facce in primo piano, un volo nel tram aereo di Alice nella città, quasi un omaggio a Wenders, come un ricordo di Andy Warhol…” annota Leonetta Bentivoglio in Pina Bausch. Vieni, balla con me ).

 

Alle sue spalle c’è la lunga storia del teatro espressionista e la vicenda ricca di voci della danza contemporanea, che i Balletti Russi di Diaghilev aprirono al dialogo con le avanguardie artistiche internazionali, in una fertile contaminazione di linguaggi, melting pot da cui nacquero le sperimentazioni del primo e del secondo dopoguerra e la felice osmosi dell’arte coreutica europea con la modern e post modern dance americana.

Nuove espressioni corporee, la recitazione che interviene a colmare lo spazio della comunicazione, gesto, sonorità e linguaggio che annullano i loro confini in un coinvolgimento emozionale totale, lo studio dell’effetto prodotto sul movimento dai processi mentali, l’improvvisazione come materiale coreografico preminente con cui il danzatore si spinge verso e oltre il proprio limite: tutto questo è il retroterra di un’opera che tenta il passo successivo, usare i mezzi e i codici del cinema per comunicare il messaggio senza rinunciare alle sue specificità.

 

Moltiplicazione di canali comunicativi, una sfida del cinema alla performance coreutica come esperienza teatrale unica e irripetibile, permanenza dell’immagine contro il “qui e ora” dell’improvvisazione scenica.

Quello che ne risulta è un prodotto avvincente, nulla che non lasci il suo segno nella memoria e non s’imprima in quella parte dell’immaginario dove solo musica e poesia muovono i loro flussi analogici  producendo empatia.

Il “patto col pubblico”, però, è fondamentale.

Davanti ad un “teatro del mondo” così complesso che, più che prestarsi ad una visione, produce esperienza ed autocoscienza attraverso l’immagine, l’attitudine dello spettatore dev’essere la stessa che si esercita di fronte al sogno, che dà movimento al paesaggio interiore, lo riveste  di forma sensibile, tocca corde profonde e ci rivela a noi stessi.

Ciò che resta, a visione avvenuta, è un denso brulicare di frammenti inconclusi a cui non applicare il controllo della coscienza per dare un ordine razionale.

Riecheggiano piuttosto le parole di Breton quando afferma di credere “…alla futura soluzione di quei due stati in apparenza così contraddittori, che sono il sogno e la realtà, in una specie di realtà assoluta, di surrealtà, se così si può dire.”

E di scene surreali, ipnotiche e coinvolgenti, è fatto il film.

Con Die Klage der Kaiserin Pina Bausch aggiunge un tassello insolito al suo narrare scenico (siamo nel ‘90, quasi vent’anni dalla prima pièce, Fritz, nel ’74, su musiche di Mahler e Hufschmidt).

Le riprese iniziarono nell’ottobre del 1987 e terminarono nella primavera del 1989, poi l’esperienza cinematografica si concluse e Pina tornò ai suoi Stücke (pezzi), uno all’anno fino all’ultimo, del 2009, “…Como el musguito en la piedra, ay, si, si, si…” in co-produzione col Festival internazionale del teatro di Santiago.

Le sequenze scorrono con ritmo alterno, brevissime e concitate, lente e prolungate, collage di metafore legate da un tessuto analogico che ha l’immediatezza del linguaggio musicale, esterni ed interni intercambiabili sono attraversati da figure che hanno la stessa forza convincente dei fantasmi nei sogni, lì dove tutto è possibile e la vita si raccoglie in simboli.

 

La gestualità dei personaggi proviene a tratti dai movimenti quotidiani che esplorano in chiave onirica territori lontani dal mondo della danza (la donna che fuma placida in poltrona in mezzo all’ incrocio di traffico congestionato o l’altra che telefona da una toilette pubblica e poi mette la cornetta sotto il getto dell’acqua), spesso è riflesso di moti interiori, pulsione libidica repressa che si libera, abbattendo le barriere del pudore e riscoprendo l'erotismo, la deriva del desiderio che si addensa in movimenti di ardente sensualità, (gambe di ballerini s’intrecciano in un folle tango al ritmo dell’Orchestra Tipica Los Indios di Ricardo Tanturi) o è gesto nevrotico, scatto frustrato, delusione dolorosa di uomini e donne separati da barriere invisibili e ormai insormontabili.

Ancora, altrove, si spinge nei territori dell’incubo, e un uomo-totem si muove sull’onda di un pezzo vocale di suggestiva sonorità di  Louis Jordan & His Timpanyin una lenta, macabra danza del ventre, coperto di fango, quasi un tronco carbonizzato nel controluce, mentre un inquietante viso maschile, truccato da geisha, torna più volte in primo piano o teorie di anziani con in braccio bimbetti urlanti sfilano fra gli alberi di un bosco con i tronchi numerati che ha tutta l’aria di un lager.

Paure, angosce, desideri e rimozioni riaffiorano in un’architettura frammentaria, a tratti desolata e minacciosa (la donna/coniglietta stile Play boy che vaga smarrita alla ricerca di qualcosa in un deserto di fango e lava nella sequenza iniziale, l’uomo che cammina curvo sotto il peso di un armadio pericolosamente in bilico sulla schiena), altre volte sensazione rigenerante come il ritorno alla libertà dell'infanzia, territorio ancora immune da inibizioni, dove la gioia infantile del vestirsi e truccarsi con i rossetti della mamma si traduce in raffinati abiti da sera a coprire sommariamente corpi maschili e femminili, o veli bianchi che volteggiano tessendo trame fluorescenti intorno al ruotare ininterrotto della danzatrice, leggeri tessuti fiorati di abitini estivi stupiscono sulla danzatrice giapponese che sorride e danza sotto la neve o sul corpo flessuoso della giovane chansonnière che cammina su distese ghiacciate, cantando e suonando la piccola fisarmonica dei bistrots di Montmartre, mentre un uomo, disteso a terra, si va coprendo di neve.

 

La musica crea un alone magnetico, fatto di scelte ora sconcertanti (una litania funebre afghana risuona lamentosa nel bianco e nero, mentre due ballerini, in lunghi abiti da sera ma a torso nudo, scivolano agili su pattini, muovendosi mollemente intorno ad uno spazio circolare) ora rientra nel solco pieno della tradizione, a cui la Sinfonie-orchestra Wuppertal  dà solenne struttura formale ma sonorità stridente, quasi dissonante, nella lunga sequenza di apertura, dove appare già evidente  il carattere di rêverie dell’intera messa in scena.

Gli spazi sono segnati da forte fisicità trasmessa ai corpi che traspaiono da vesti bagnate o scivolanti giù a scoprirne le forme, acqua e neve, fango e terra, tappeti di foglie, boschi e sconfinate distese di prati sono il leit-motiv di un mosaico di immagini vibranti, spesso occupate da solisti che sembrano emergere da chissà quale catastrofe e muoversi fra ricerca e perdita dell’altro, in una circolarità senza fine.

Basato su improvvisazioni gestuali e verbali di danzatori per cui recitare è un fatto intimo, personale, dettato dalle esperienze di vita, dal modo in cui vivono i sentimenti, l’amore, il bisogno di vicinanza e sicurezza, la paura della morte e il senso precario del vivere, Die Klage der Kaiserin, come tutte le coreografie del Tanztheater Wuppertal, si dichiara conforme al metodo di composizione voluto dalla Bausch:

 Non può essere fatto in altro modo che attraverso la tua esperienza. Devi fare quello che fai con la tua visione personale, rendere un senso attraverso la tua propria sensibilità-

sono parole di Pina che ricorda Dominique Mercy, ballerino indimenticabile delle performances più celebri, oggi direttore artistico della comunità.

“Le arti sono una specie di vibrazione con la loro epoca; la modernità crea le sue forme, i suoi artisti. Ci sono delle forze create dall’uomo e non da un dio…” affermava Jean Claude Gallotta, esponente della Nouvelle Dance.

Pina ha colto questa vibrazione, ha vissuto la poesia del mondo, l’ha consegnata alla danza e, per una volta, anche al cinema.

 

 

 

 

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