Regia di Bonifacio Angius vedi scheda film
Cade una biglia, rotola il piccolo Antoneddu giù per le scale, ma Sant’Antonio gli ha fatto sa grascia, la grazia: la testa è ammaccata ma integra, il bimbo sta bene, ora tocca ringraziare il santo. Vestito da frate penitente, scalzo lungo le strade arse dal sole della Sardegna, accompagnato da un cugino con la stazza e la loquacità di una mucca, va in cerca di una chiesetta che pareva dietro l’angolo e invece sembra irraggiungibile, nascosta da qualche parte nelle pieghe del tempo e dello spazio. È un’isola sognata, quella in cui si srotola l’opera prima del giovane Bonifacio Angius (classe 1982), viaggio surreale immerso nell’entroterra sardo, di cui pare di sentire il profumo acre e speziato. Figurette grottesche e stranianti, i due cugini (l’uno in papillon, l’altro in saio, nel mezzo del paesaggio brullo) sono i protagonisti stralunati di un’opera piccola piccola (autoprodotta, con un mini budget di 15 mila euro) e coraggiosa, che ha Fellini nel cuore e la terra sarda saldamente sotto i piedi. La poesia qua e là è inseguita in modo un po’ troppo programmatico (le musiche “sproporzionate” di Gardel e Ponchielli), e il soggetto, forse più adatto per un corto, arriva stiracchiato alla pur breve durata. Ma l’esordiente Angius ha un’idea di cinema già precisa e appassionata, fuori dal tempo e dalle mode, e il suo tentativo di fotografare la propria terra, ricca di suggestioni e contraddizioni, è encomiabile.
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