Regia di Bonifacio Angius vedi scheda film
La Sardegna dell’incanto. Quella ritratta da Bonifacio Angius è una terra assorta, innamorata del proprio carattere sperduto e fuori dal tempo, nonché ermeticamente chiusa nel suo aspro colore locale. Il piccolo Antonio, vestito da frate e con piedi scalzi, la attraversa da solo per ringraziare il santo suo omonimo, che gli ha salvato la vita. Quel pellegrinaggio è un itinerario cosparso di suggestioni sospese tra l’inafferrabilità della memoria e l’indefinibilità della fede. Nostalgia e speranza si mescolano in un circo di personaggi di ispirazione felliniana: diseredati e vagabondi, dai tratti folli o buffoneschi, sempre ammantati da un fascino inquietante e selvaggio. Il muto dalla fame insaziabile, la strega bambina che sembra una madonna, il giovane che è appena stato chiamato alle armi eppure ha ancora tanta voglia di essere bambino: sono alcune delle figure che, lungo la strada, fanno da segnavia al disorientamento, alludendo all’illusorietà delle sequenze temporali e delle direzioni spaziali. Il desiderio è, per tutti, un impulso indefinito che si protrae oltre la soglia del visibile, dove un frutto mangiato ridiventa intero, ed un vecchio si trasforma in un suo alter ego dall’aspetto giovanile. Nel paesaggio campestre e deserto, quelle anime perse sono soltanto le multiformi proiezioni di una storia che, di per sé, è zingara, incurante della civiltà, protesa verso un ritorno alle origini, all’epoca remota nella quale uomini ed animali erano tutt’uno con la natura circostante. La modernità ha portato i veicoli a motore in un luogo nato come teatro di cacce e battaglie, in cui pascolano le mucche ed i cani scappano via dai loro padroni. Antonio partecipa volentieri al gioco, anche se non lo capisce. La sua avventura è iniziata con la perdita dei sensi dovuta ad un caduta sulle scale di casa, e prosegue all’insegna dello stordimento, che è la dimensione del sogno, e la condizione di chi viene rapito dalla realtà e sequestrato dalla trascendenza. Le ombre di un al di là terreno si materializzano, ai suoi occhi, come sconosciuti che gli rivolgono la parola e, per un pezzo, lo accompagnano verso la meta, contribuendo, al contempo, al suo smarrimento. Il film si aggrappa tenacemente a questo paradosso, che riassume il (non)senso di una ricerca vanificata dalla stessa passione che la alimenta. La devozione, tradotta nelle pratiche rituali della religiosità popolare, nel momento in cui esce dai confini familiari e diventa un’impresa solitaria, è portata a trasformarsi in una deriva dell’immaginazione che tende naturalmente al naufragio. Antonio si ritrova improvvisamente in balia del caso, eppure non pensa mai di abbandonare la sua missione, che in quel caos si carica della giusta dose di fantasiosa malia. La sua determinazione cresce di pari passo con la confusione che lo assale da ogni lato; del resto, a conquistarci con il suo mistero e dominarci dall’alto della sua superiore conoscenza, è anzitutto ciò che ci perseguita con la sua incomprensibilità. L’essenziale, per continuare a credere ciecamente, è non sapere il perché. Un’idea che SaGràscia trasmette con un intrigante gusto per il grezzo e l’incompiuto, con un linguaggio primitivo e genuino, ma forse un po’ troppo chiazzato di acerbe esitazioni.
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