Regia di Carlo Shalom Hintermann vedi scheda film
Esistono almeno due differenti modi di realizzare documentari: affidarsi a una struttura classica, a volte anche obsoleta, in cui i protagonisti danno il meglio di sé di fronte a una telecamera per esternare in maniera “posata” ciò che vogliono raccontare, oppure provare a giocare con le possibilità che l’arte cinematografica concede, coniugando in un unico corpus generi differenti che costruiscono un percorso filmico in cui si fa fatica a distinguere il vero dalla finzione. A questa seconda categoria di realizzazione appartiene di sicuro The Dark Side of the Sun di Carlo Hintermann.
Nell’intervista a lui realizzata, io stesso inconsapevolmente l’ho definito un docuanimato, limitando così la descrizione a un duplice aspetto che, seppur fondamentale per l’opera, appare decisamente riduttivo. Portare in scena il dramma dello Xeroderma pigmentosum (XP) non era certo facile: il rischio di inciampare e ricercare l’effetto strappalacrime era alto ma Hintermann lo evita, defilando con maestria le immagini nel momento in cui il precipizio si palesa. È come se, da ospiti delicati e rispettosi, ci si allontanasse quando si respira aria di lacrima. Così come si allontana lo sguardo della macchina da presa quando casualmente si posa su una macchia che ricopre la pelle dei bambini lunari: si poteva indugiare sulla fenomenalità della diversità, rigirare il coltello in ogni singola piaga e ricercare l’effetto freak ma per fortuna ciò non avviene. Nel momento in cui si arrivano a mostrare alcuni volti deturpati siamo talmente così immersi all’interno della vicenda che non si fa caso all’aspetto esteriore, si guarda dritto ad esempio dentro al cuore di Kevin, quasi un angelo custode di Camp Sundown, morto prima di aver compiuto 36 anni, o al dolore di Fatima per non poter sfoggiare la sua bellezza dopo l’ennesimo intervento di chirurgia plastica che contribuirà a cambiare l’aspetto del volto per sempre.
E questo perché a Camp Sundown c’è vita, nonostante il buio. I figli di “padre notte”non sono altro che il riflesso dei figli di “madre giorno”: vivono nel momento in cui gli altri vanno a dormire e fanno le stesse identiche cose. Giocano, ridono, scherzano, come tutti gli altri loro coetanei: basta la loro luce interiore a sconfiggere le ramificazioni del buio, basta la loro goccia di luce a rianimare animi privi di sentimento. La piccola Rachel, timida ed esile come un passerottino appena nato, sogna proprio di riportare in vita l’amico Kevin, uomo di latta di “oziana” memoria e nella fantasia ha il potere di farlo: non importa quanto tu sia piccolo, conta quanta determinazione hai dentro. Lo dimostra anche Katie, colei a cui si deve il campo: quasi cieca e sorda, eppure immersa nella sua realtà fatta di studio, diploma e college.
Vinta la sfida dell’assenza di luce nelle scene girate al campo, Hintermann sorprende nelle immagini riprese all’aria aperta che spesso fanno da collante tra una scena e l’altra: si ritrovano luci, prospettive, tecniche e colori già impressi in The Tree of Life, dimostrando a pieno di aver imparato molto da Malick. La cosmogonia immaginata dai bambini nei loro disegni trova un contraltare nelle riprese di ambienti naturali che esplodono con le loro cromaticità: si diviene improvvisamente un tuttuno con la natura, posizionandosi come una lepre che corre in un giardino o un bruco che sta sornione attaccato al suo filo d’erba.
Cercando di estraniarsi dalle storie rappresentate, la mente si ferma all’animazione e riscopre gli stilemi distintivi e visionari di Lorenzo Ceccotti, meglio conosciuto come LRNZ: al tratto miyazakiano (come in molti ormai definiscono i caratteri distintivi dell’animazione giapponese) si affiancano elementi provenienti dal sottobosco dark e, talvolta, gotico. Per forza di cose, i sogni sono dicotomici e mettono in scena in maniera epica l’eterna lotta tra buio e luce, cercando però di non cascare nel classico cliché per cui tutto ciò che è buio è cattivo e tutto ciò che è luce è buono. Nell’ottica di questi bambini non esiste un confine netto tra bene e male, dipende dalle percezioni e sensazioni che hanno: l’ombra si palesa con atteggiamenti da matrigna quando la tristezza lascia il posto alla serenità ma capita anche che “padre notte”, sentendosi responsabile dell’errore che li costringe a vivere una vita capovolta, si palesi loro per portare conforto e sollievo. La stessa cosa accade anche con “madre giorno” che, se da un lato acceca, dall’altro apre gli occhi ai figli del giorno, mostrando loro che la diversità è un concetto che non esiste. “Padre notte” e “madre giorno” hanno la splendida tipicità del guerriero e della principessa: mantello nero e corpo muscoloso per lui, lunga chioma e sguardo dolce per lei, forse innamorati ma maledetti dal destino. La fantasia dei bambini poi viene in soccorso degli animatori, immaginando eserciti di tassi che trasportano raggi solari da oriente a occidente, sirene che vivono sott’acqua dentro a conchiglie e a cui affidare le bolledi luce.
Da manuale è l’intera sequenza iniziale, a partire sin dai titoli di testa che si susseguono colmi di luce su sfondo nero per concludersi in una scena che ci porta attraverso le ali di un gufo fino alla New York di notte, dentro casa di Katie.
Camp Sundown offre poi una serie di possibilità al regista: alle immagini girate in maniera professionale, si affiancano brevi filmati realizzati dai bambini stessi o dai loro familiari. Sono immagini di vita rubate alla quotidianità che mostrano quali siano le reali difficoltà delle persone affette da XP: è uno schiaffo doloroso il vedere come sin da piccoli siano costretti a vivere coperti da guanti, maglioni, maschere, occhiali da sole per evitare le ustioni e l’insorgere di tumore alla pelle, e come ciò comporti loro mille difficoltà e mille sogni negati. Chris, ad esempio, è costretto a giocare a baseball di notte, Rachel a rinunciare a giocare a nascondino, Katie a lottare contro il college per poter seguire le lezioni e Fatima a cercare disperatamente un barlume di normalità tra gente che possa comprenderla e non trattarla come un fenomeno da baraccone. Al campo ritrovano se stessi, quasi dimenticano i segni che si portano addosso e Hintermann restituisce il clima di giovialità che aleggia per quelle stanze. I giochi di luci e ombre colorate, come nel gioco finale con dei cubi particolari, creano poi suggestione in chi osserva ed empatia con quelle intelligenze delicate. E poco importa se, inconsapevolmente, sul finale la realtà torna ad essere devastante: le immagini di Kevin, la splendida voce di Antony che intona quasi un inno al buio e quel bimbo di pochissimi anni che non vuol tornare a casa rimangono tatuati proprio come i segni di un’ustione. Ma dura poco: ogni cosa ritorna ad essere cartone animato e vita, ogni aspetto rientra nella normalità, con la speranza di ritrovarsi il prossimo anno, sempre tutti quanti e sempre tutti lì, nella grande famiglia di Camp Sundown dove il sole non sorge mai.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta