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L'arte della felicità

Regia di Alessandro Rak vedi scheda film

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La recensione su L'arte della felicità

di (spopola) 1726792
8 stelle

Un coraggioso esperimento che mette in luce e conferma l’eccelsa vocazione artisticamente creativa dei partenopei che conferma la grande vitalità di una città che scopre e sponsorizza il talento rimasto sommerso e finora sconosciuto ai più, di tanti giovani artisti carichi di idee decisamente molto propositive e tutt’altro che conformi.

Volevo che fosse una storia sulla percezione, sul tema del velo di Maya: ognuno di noi vede il mondo attraverso un filtro e la felicità è quel che ci permette di amministrare questo filtro. (Alessandro Rak)

 

L’arte della felicità che ha aperto con successo La settimana della critica all’ultima Mostra del Cinema di Venezia (ed è poi stato proiettata in anteprima riscuotendo una analoga e incondizionata approvazione collettiva anche al Lucca Comics  Games  2013), è una delle sorprendenti rivelazioni di questa per più di verso fiacca stagione cinematografica, ma che in questa fase finale sta fortunatamente sparando le sue migliori cartucce in attesa dell’abbuffata natalizia che si ricollocherà ovviamente – ci potremmo scommettere sopra – verso altri lidi molto più commerciali e di “consumo”.

Probabilmente ha ragione Pedro Armocida quando scrive (Film Tv cartaceo n° 47 – pag. 26) che ci saremmo trovati davanti a un vero e proprio “capolavoro”se il film avesse potuto contare su una sceneggiatura in costante e perfetta sintonia con la bellezza della sua rappresentazione visiva, e che invece paga leggermente pegno a causa di un eccessivo didascalismo dei dialoghi  che in qualche passaggio danno l’impressione di uno strano scollamento fra testo e immagini.

Credo di poter essere abbastanza d’accordo con questa interessante (e intelligente) osservazione, poiché anche io qualche piccolo inceppamento l’ho avvertito nel suo voler giocare troppo con le ridondanze e gli eccessi che rendono un tantino logorroico il magma visionario di un racconto che prova a mettere a fuoco (spesso riuscendoci) la deriva esistenziale del protagonista,  perché la scrittura (che del resto nemmeno Armocida mette del tutto in discussione) è comunque a mio avviso altrettanto rimarchevole e nel suo insieme più che sufficiente (non va dimenticato che ci troviamo davanti a un’opera prima, il che determina una viscerale necessità di dire tutto e subito anche a costo di qualche inevitabile sbavatura).

Io insomma sono uscito più che soddisfatto dalla sala dove mi è capitato di incontrarlo, pienamente appagato negli occhi e nello spirito da questo singolare debutto struggente e problematico dell’(ex ?) fumettista Alessandro Rak che a giudicare da questa sua prima fatica da regista, mostra già un eccezionale talento nell’esplorare nuovi linguaggi che contribuiscono a fare diventare finalmente adulto anche il cinema d’animazione italiano che grazie a questo suo exploit, sembra non avere più nulla da invidiare a ciò che si realizza in altre nazioni e continenti nello specifico genere (e che può di conseguenza competere a pieno diritto con le capacità emozionali dei grandi maestri dell’animazione giapponese anche se forse, come per altro ammesso dagli stessi autori, lo stimolo è venuto in modo più specifico dalla visione di Valzer con Banshir , opera con la quale però ameno io non ci ravviso molte “parentele”, tutt’altro).

Come ha giustamente osservato Marzia Gandolfi, con questo suo approccio alla forma cinematografica del racconto, Rak prova a gestire e a organizzare il suo interessante lavoro di autore intorno alla 'trasformazione' e al movimento dell'ereditare (inteso come rapporto empatico di un’affettività passata che travalica il ricordo nostalgico di un vissuto condiviso che è stato altamente formativo ma ormai purtroppo non è più disponibile se non nella memoria).

Se qualche volta il meccanismo si inceppa leggermente, se ogni tanto si percepisce una certa meccanicità (più narrativa che di messa in scena) nel susseguirsi troppo veloce delle situazioni, e se probabilmente si mette alla fine persino troppa carne al fuoco, il peccato – se così lo vogliamo definire - è meno che veniale e quasi commovente  per la volontà (lodevolissima) che ci si ravvisa dentro di provare a volare sempre in alto a costo di strafare (e qualche rischio indubbiamente lo si corre quando l’inesperienza al nuovo mezzo utilizzato rende - più che difficile - quasi impossibile, la sinteticità dell’approccio), poiché non è davvero molto semplice ricondurre la narrazione esplosa dei fumetti (che possono contare su una differente forma espositiva della frammentazione del racconto, dei salti temporali, dei flussi di coscienza, dei monologhi interiori,dei deliri, degli scarti prospettici e dei dettagli) a quella più lineare e consequenziale del cinema.

 

Quanto dobbiamo vivere nella stessa gabbia per dimenticarci delle sbarre che ci impediscono di volare via?



Si può dunque  già capire da queste brevi note, che ci troviamo davanti a un film che davvero (mi azzardo a dire) non somiglia a nessun altro: un'opera che vuole essere anche una riflessione su un presente di assoluta ed estrema attualità, segnata (come abbiamo già avuto modo di osservare) da un altissimo tasso di malinconica nostalgia e dove “si cerca di capire se sia possibile essere felici anche senza un futuro” eche si esprime attraverso un’animazione artigianale, originalissima, densa,  complessa e stratificata oltre che artisticamente raffinata, particolarmente adatta a sollecitare la fantasia più che dei bambini in senso lato, proprio di un pubblico adulto: disegni cosi singolari che attingono e traducono magnificamente con l’afflato della poesia, l’empatica spaziosità  dell’immaginario.

Un coraggioso esperimento insomma che mette in luce e conferma l’eccelsa vocazione artisticamente creativa dei partenopei (in un anno che – anche per ciò che è passato dal festival di Roma - sembra confermare la grande vitalità di una città che scopre e sponsorizza il talento rimasto sommerso e finora sconosciuto ai più, di tanti giovani artisti carichi di idee decisamente molto propositive  e tutt’altro che conformi: nel caso specifico il gruppo riunito intorno a Luciano Stella - autore anche della sceneggiatura del film insieme a Rak - in una vera e propria factory  trasversale fra le varie discipline, denominata Mad  Entertainement e dove “mad” è un acronimo che sta per musica, animazione e documentari, ma che vuole essere anche (come ci ricorda Andrea Fornasiero) allo stesso tempo un elogio della pazzia (che è poi il significato della parola mad in inglese).

Il risultato è tanto più importante e meritorio insomma, se si considera poi che in una nazione come la nostra si fa davvero troppo poco in questo campo, visto che non esiste nemmeno una vera e propria scuola dell’animazione degna di questo nome e che anche nelle sporadiche realizzazioni che arrivano sullo schermo, gli autori sono costretti ad accettare alla fine (e quasi sempre) compromessi che portano al livellamento verso il basso imposto dalla produzione con il diktat imperioso di voler correre meno rischi possibile, il che annulla e cancella ogni tentativo latente di sperimentazione costruttiva.

 

La realizzazione del film (è lo stesso regista a raccontarcelo) è partita coinvolgendo solo una decina di persone, e quindi sapevamo che avremmo dovuto trovare altre forze strada facendo, per poter portare davvero in porto il progetto. C’è stata fortunatamente una crescita continua ed esponenziale di autori interessati, ed è risultata alla fine fondamentale proprio la compresenza nello stesso luogo di tutte le forze impegnate a lavorarci intorno, perché è proprio questo stare insieme a condividere che non si può ottenere se si lavora a distanza nemmeno oggi con la rete che sembra avvicinare tutto a portata di mano. Così, invece di ricorrere all’outsourcing, ci siamo affidati alle risorse presenti sul territorio.

Non solo dichiarazioni programmatiche, dunque ma una inusuale modalità lavorativa che ha portato a un risultato tangibile ed entusiasmante per più di una ragione, e che fa de L’arte della felicità un film ispirato e suggestivo, dove la qualità del tratto conta davvero molto di più dell’animazione in senso stretto (che pure è di grande forza emozionale): qui l’attenzione è spesso (e soprattutto)  concentrata sul particolare, sul dettaglio, così che i  vari personaggi  sono quasi sempre colti e rappresentati piuttosto che in movimento, attraverso il primo (e il primissimo) piano, proprio perché nel film non è l’azione a primeggiare, ma l’intensità di un sorriso o di uno sguardo, la piega di un labbro serrato che può curvarsi in una smorfia  che esprime tutto il senso di un rimpianto o la catarsi emotiva della nostalgia: tutti elementi che finiscono alla fine per avere il sopravvento persino sulle parole che alle volte, come abbiamo già detto, esprimono più banalmente osservazioni e giudizi sul nostro vivere quotidiano.

 

Quando possiamo dimenticarci che stiamo di fatto occupando una prigione dalla quale non usciremo ma non perché le porte sono chiuse a chiave, ma per la semplice ragione che  abbiamo scordato che se solo volessimo, se avessimo la forza di osare, lo potremmo fare poiché non c’è nulla nella vita che è ermeticamente chiuso da una serratura che non è possibile scardinare?

 

La storia è ambientata in una Napoli grigia e livida, lontanissima dalle immagini più note e folcloristiche con le quali siamo di solito abituati a confrontarci. Una Napoli battuta da una pioggia incessante e invasa dai rifiuti che fa da sfondo al viaggio di un tassista (Sergio), un ex musicista che ha rilevato la licenza da suo zio, diventato ormai da troppo tempo un lupo solitario rinchiuso in un’ostinata solitudine sentimentale ed affettiva, e che gira (a vuoto) con la sua auto (che è anche la sua abitazione) fra i vicoli della città, scivolando fra traffico e degrado.

Sergio ha abbandonato il pianoforte da quando Alfredo, il suo fratello maggiore (con il quale formava un duetto) se ne è andato lasciandosi tutto alle spalle per rifugiarsi in Tibet per provare così a curare i suoi malanni. Sergio non ha mai accettato la scelta del fratello di diventare un monaco buddista (ed è forse per questo, per il rancore che porta verso il suo congiunto a causa dell’“abbandono” che anche lui ha finito per perdersi, galleggiando malamente tra visioni lisergiche e sogni interrotti, fino a vivere in solitaria e in perenne conflitto anche con le sue scelte, dentro quell’auto ingombra di fotografie e mozziconi di sigarette.

Raggiunto dalla notizia della morte del fratello, è invaso dai ricordi di quella vita  trascorsa “insieme” che ormai non potrà ricongiungersi e “completarsi” nel ritorno, mentre sotto una pioggia sempre più battente, porta in giro con il suo taxi, un assortito campionario di varia umanità (una cantante pop, uno speaker radiofonico, un vecchio zio, un riciclatore di frammenti di vita) che sale, scende e se ne va, trasformando quel viaggio fisico compiuto da Sergio, in una specie di metafora indotta di un uomo alla ricerca della sua felicità (ogni cliente infatti – nella più classica tradizione napoletana – è interprete “testimoniale” di una precisa  e particolare filosofia di vita). Un viaggio introspettivo insomma che è soprattutto dentro se stesso e si rianima e vive nel confronto con gli altri, poiché è proprio attraverso quegli incontri casuali che l’uomo inizia a ritrovare il senso della propria esistenza, mentre il racconto della sua corsa accidentata nel passato si arricchisce con l’irruzione di ripetuti flashback che frantumano la narrazione e danno alla storia un impatto fortemente coinvolgente (credo che ognuno possa ritrovarci dentro qualche cosa di se stesso) che va diritto al cuore.

Da troppo tempo ostinato a non scendere più dall’auto e a perdersi dentro una corsa senza fine, Sergio è finalmente (e di nuovo) travolto dai ricordi e dalle tracce che ciascun cliente porta su di sé che gli rammentano il fratello tanto amato, a partire dal risorgere imperioso delle reminiscenze musicali di quanto a suo tempo era stato prodotto in coppia di Alfredo, che poi nel buddismo e nei suoi fondamenti dottrinali era riuscito a trovare la serenità per affrontare il peso della malattia. Quelle note che credeva sepolte per sempre, tornano così prepotenti per chiedere nuovamente una adeguata cassa armonica in cui far risuonare la propria arte.

Mettendo mano al pianoforte, Sergio sentirà così di nuovo Alfredo accanto a sé, e sarà di conseguenza in grado di raccordare attraverso il ritrovato sentimento, il passato col presente, anche se non è ovviamente facile convivere con il pensiero pressante della morte, ed è ancora più difficile capirla, accettarla e conferirle un senso: ecco, L’'arte della felicità tra le altre cose, racconta (con grande sensibilità e rispetto) anche questa difficoltà, questo disagio, a partire proprio da quel ripiegamento nostalgico dentro un'automobile dove sembra difficile persino respirare, in una città ormai annegata nei rifiuti e dove anche la bellezza è  contaminata.

 

Particolarmente curata appare anche la sonorizzazione del film (peraltro fondamentale), non solo per la copiosa presenza di musiche che fanno da tappeto sonoro all’assetto visionario del racconto, ma anche per i rumori che echeggiano dalla strada, per i suoni prodotti dagli animali e per quelli più stridenti dei motori e del traffico.

Nella colonna sonora  infatti (importante quanto le immagini e le parole poiché è proprio la musica l’elemento cardine che porta il nostro protagonista a riconciliarsi con la vita, ci sono molti brani di un altrettanto variegato gruppo di artisti (i 24 Grana; Foja; Gnut; Joe Barbieri; Francesco Fornie, e soprattutto Antonio Fresa e Luigi Scialdone con tutta la forza armonica e melodica delle loro sonorità “speciali”).

Musica visiva insomma che dà una corposa identità ai sentimenti, e stempera fino a dissolverla la prolungata  paralisi melanconica del protagonista troppo a lungo bloccato anche nei sentimenti.

Interessante ed autorevole anche il gruppo di voci (alcune forse persino troppo inconfondibili) alle quali è affidato il compito di far parlare i vari personaggi della storia : da Riccardo Polizzy a Renato Carpentieri; da Leonardo Amato a Nando Paone.

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