Regia di Roan Johnson vedi scheda film
I primi della lista è l’esordio nel lungometraggio del regista pisano Roan Johnson (un nome da tenere d’occhio visto il leggero, ma felice esito di questa sua prima fatica).
Realizzato con pochissimi mezzi (ha contribuito anche Paolo Virzì), il film ha infatti uno sguardo insolito, originalissimo e un po’ stralunato che “mette in scena” un’Italia grottesca ma genuinamente veritiera che è anche la fedele e divertente fotografia di un periodo caldo e un po’ travagliato della nostra storia come è stato quello dei primi anni ’70, già nel cono d’ombra degli Anni di Piombo, che viene rievocato con uno stile lieve e in po’ guascone, sospeso fra il racconto picaresco e la commedia, ma anche pieno di “realismo” (vi contribuisce l’inserimento di alcuni filmati di repertorio che riescono molto bene a contestualizzare l’epoca e a fare il punto – anche riflessivo - sulla strategia della tensione già in atto) che vivifica un tessuto narrativo costruito utilizzando molti dei tradizionali meccanismi espositivi tipici della commedia all’italiana, che si esplicitano in frequenti ed azzeccati momenti fortemente caratterizzati da una comicità un po’ buffonesca ma efficace, intrisa però da una punta di nostalgica tenerezza.
Il film rievoca una vicenda realmente accaduta, quella di tre giovani militanti pisani di Lotta Continua, che nel 1970 (e quindi a ridosso della strage di Piazza Fontana, e dei depistaggi “manovrati” che ne seguirono e che segnarono ulteriormente in negativo la tragedia) fermamente convinti che l’Italia fosse sull’orlo di un colpo di stato militare come già era accaduto in Grecia ad opera di Papadopoulos solo pochi anni prima, decisero di “migrare” scappando verso lidi più sicuri. In fuga a bordo di una 500 un po’ scassata con l’obiettivo di raggiungere la “mitica” Jugoslavia, per una serie di beffarde coincidenze, fermamente convinti che il golpe si fosse già compiuto, finirono invece poi per chiedere asilo politico all’Austria, mettendo in piedi un vero e proprio putiferio.
“Dormite fuori casa per tre, quattro notti. Se fanno il putsch vi vengono a prendere a casa uno per uno”: è questo il messaggio che arrivò a tutti compagni più esposti quando si temette il peggio, ed è pure il punto di partenza che utilizza anche il regista, o meglio ancora il motore trainante e l’occasione per un onirico “tre passi nel delirio” politico dove tutti i fantasmi della sinistra militante di quegli anni sembrano improvvisamente materializzarsi. (Barbara Corsi).
Le ossessioni e le paranoie (tutt’altro che ingiustificate) di quegli anni (perché un tentativo di golpe ci fu effettivamente nel dicembre del 1970, anche se fu poi sminuito come se si fosse trattato di un’operazione senile di pochi nostalgici, ma da cui prese comunque nuova linfa la strategia destabilizzante che diede poi origine ai sanguinosi fatti di Brescia, dell’Italicus e dell’attentato dinamitardo che distrusse buona parte della Stazione di Bologna) sono sciorinate con un tocco leggermente grottesco e un tantino surreale tutto giocato sugli equivoci e il paradosso (una colonna di blindati dell’esercito in viaggio per la parata del 2 giugno che viene scambiata per una minacciosa formazione militare in marcia verso la presa di Roma; le guardie jugoslave tutt’altro che amiche e accoglienti come ce le rappresentava invece la propaganda comunista dell’epoca, e così via) sufficiente ad astrarre dal mondo circostante i personaggi del racconto, per immergerli quasi in apnea in ambienti un po’ asettici, stilizzati e vuoti, come se fossero fuori di testa e fuori dal mondo, ma proprio per questo riuscissero iperbolicamente e quasi profeticamente a intravedere le crepe già in atto di un sistema alla deriva e già in un certo senso in cortocircuito (ancora Barbara Corsi) che possiamo ben comprendere anche noi che oltre quarant’anni dopo stiamo ancora vivendo un incubo grottesco ed inquietante di analoga portata surreale che sembra non finire mai e dal quale non riusciamo nemmeno a svegliarci pizzicandoci la guancia fino a farci male: ugualmente disarmati e “vigliacchi” come quei ragazzi, oltre che analogamente “perdenti” (o peggio ancora, “soccombenti”), non possiamo contare nemmeno sullo sguardo affettuoso di un regista che osi mettere in scena le nostre impotenti incertezze con analoga premurosa ironia, e dobbiamo quindi probabilmente rassegnarci a una sconfitta che non avrà mai la forza di diventare “Storia”.
Pisa, 1giugno 1970. In pieno rigurgito sessantottesco, fra manifestazioni di piazza, scioperi e fortissimi scontri ideologici, l’Italia è praticamente a un bivio stretta tra le utopie e le ingenuità della recente “rivoluzione studentesca” delle idee da una parte e le lotte interne sempre più serrate e sanguinose dall’altra.
Due studenti politicamente attivi ed impegnati, Fabio Gismondi e Renzo Lulli, invece di prepararsi per l’esame di maturità ormai alle porte, decidono di intraprendere un’altra strada a loro più conforme, e si presentano per un provino con la chitarra a casa di Pino Masi, cantautore carismatico ben inserito all’interno dell’ambiente della contestazione e fondatore del Canzoniere Pisano Mentre i due ragazzi stanno eseguendo la “Ballata del Pinelli” davanti a quello che per loro è un leader indiscusso della lotta, arriva – segretissima – la notizia di un golpe. Masi ha le idee chiare e molte paranoie. Decide così, seduta stante, che non si può assolutamente perdere un attimo di tempo, e che se si vuol salvare almeno la pelle, è necessario eclissarsi immediatamente andando lontano dalla città, e magari raggiungere il confine, espatriare, perchè quando il colpo di stato avrà avuto luogo, i musicisti, gli scrittori e gli intellettuali saranno i primi della lista ad esser presi. Insieme agli altri due ragazzi, darà così inizio a quel viaggio improvvisato, rocambolesco e un po’ vigliacco, davvero tutto da gustare.
Danno vita ai tre “caratteri”principali della storia, un eccellente Claudio Santamaria (il tormentato cantastorie Pino Masi) e gli esordienti Francesco Turbanti e Paolo Cioni, altrettanto bravi, affiatati e “sodali”.
Il film indubbiamente diverte, ma fa anche riflettere e pensare (almeno a me è accaduto questo): mi sono infatti chiesto più volte durante la visione (e spero di non essere stato il solo) fino a che punto fosse davvero possibile ridere di fronte a questa storia. A instillare il dubbio di una possibile lettura più profonda e articolata capace di raggelare almeno per qualche attimo il sorriso e a risvegliare la coscienza e il ricordo, è proprio la didascalia che a un certo punto informa (e dà conferma) di quel “dimenticato” e forse un po’ maldestro tentativo di golpe ad opera di Junio Valerio Borghese a cui accennavo sopra che è stata una minaccia realisticamente concreta in quel dicembre…
Prima dei titoli di coda, mentre eseguono “Quello che non ho” di Fabrizio De André, dichiarato e sentito omaggio al grande cantautore scomparso e alla”cocente” passione del periodo storico rappresentato, i tre interpreti (Santamaria, Cioni e Turbanti) incontrano i veri Lulli, Gismondi e Masi, ed è un momento davvero toccante e veritiero:
Quello che non ho è una camicia bianca
quello che non ho è un segreto in banca
quello che non ho sono le tue pistole
per conquistarmi il cielo per guadagnarmi il sole.
Quello che non ho è di farla franca
quello che non ho è quel che non mi manca
quello che non ho sono le tue parole
per guadagnarmi il cielo per conquistarmi il sole.
Quello che non ho è un orologio avanti
per correre più in fretta e avervi più distanti
quello che non ho è un treno arrugginito
che mi riporti indietro da dove sono partito.
Quello che non ho sono i tuoi denti d'oro
quello che non ho è un pranzo di lavoro
quello che non ho è questa prateria
per correre più forte della malinconia.
Quello che non ho sono le mani in pasta
quello che non ho è un indirizzo in tasca
quello che non ho sei tu dalla mia parte
quello che non ho è di fregarti a carte.
Quello che non ho è una camicia bianca
quello che non ho è di farla franca
quello che non ho sono le sue pistole
per conquistarmi il cielo per guadagnarmi il sole.
Quello che non ho... (Fabrizio de Andrè)
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