Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film
Devo ricredermi sulla “Notte”. Visto oltre 10 anni or sono e liquidato all’epoca come tedioso ed irrisolto, rivisto in tempi recenti, dopo che di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia per quanto mi riguarda (tradotto: in tutto questo tempo ho avuto modo di comprendere l’enorme influenza esercitata dal ferrarese sul cinema dei nostri giorni), questo film mi pare addirittura migliore della “Avventura”, comunemente annoverato come l’opera di riferimento per comprendere Antonioni.
Posto che “L’avventura” resta un modello imprescindibile, nella sua struttura dispersiva, influente da Wenders a Tsai, passando per tutti coloro che hanno proposto un cinema di assenze, di vuoti, di tempi morti, conteso fra gli estremi della libera esplorazione ambientale e dell’irredimibile malessere esistenziale, c’è un fattore peculiare che mi fa preferire “La notte”: il passaggio dagli esterni delle isole siciliane agli interni di una villa borghese. “L’avventura” paga lo spaesamento di una regia che pare riflettere la mancanza di coordinate (spaziali, morali) che affligge i personaggi: è come se Antonioni non fosse riuscito a stabilire una sorta di dialettica con il mistero di quei paesaggi incantevoli e crudeli. Il maestro Rossellini, con “Stromboli”, aveva fatto meglio, ma intendiamoci: stiamo comunque parlando dei livelli più alti raggiunti dalla nostra cinematografia, trattandosi di film che hanno cambiato per sempre il modo di intendere la messa in scena, la drammaturgia, la regia eccetera.
Sta di fatto che l’Antonioni “domestico” mi pare più efficace nello squadrare lo spazio, impostando traiettorie di sguardo con cui la mdp definisce i rapporti di forza fra i personaggi, le loro aspettative, i loro sentimenti. Oltre a questo, “La notte” vanto uno script notevole, dove le tre penne diversissime, per certi versi antitetiche, di Antonioni, Guerra e Flaiano si fondono miracolosamente in una materia narrativa, psicologica, sociologica di grande ricchezza, che la regia di Antonioni espone e sviscera con sicurezza e lucidità.
“La notte” si potrebbe dividere in tre parti: la prima, con la visita al moribondo amico Tommaso e il rapido flirt di Giovanni con la pazza in ospedale, ha la funzione di stabilire le coordinate, quasi bergmaniane, della morte e dell'eros, due facce della stessa medaglia, due percorsi tematici che rimarranno sotterranei per tutto il film, ma senza per questo scomparire; nella seconda, vediamo Giovanni solo a casa mentre la moglie Lidia vaga per una periferia milanese in rapido ed irreversibile mutamento: qui i due coniugi, borghesi intellettuali in crisi sentimentale, sono già, di fatto, due entità ontologicamente separate, non comunicanti. E’ importante poi rendersi conto del significato profondo di questo indugiare di Antonioni sugli scorci di una città che cambia: erano gli anni del Boom, la società (e con essa i paesi, le città, le abitazioni, le strade) stava mutando in maniera traumatica e la difficoltà di adattamento generale a questa sorta di “Tempo accelerato” si riflette in quella particolare della coppia in crisi. Si forma una sorta di simbiosi fra l’umore di Lidia (è lei l’individuo più sensibile, è lei che avverte per prima i sintomi di tale crisi personale e sociale) e il landscape urbano.
La terza parte, che poi è una sorte di “film nel film” che ne occupa più di metà della durata, ossia la visita alla villa degli industriali brianzoli Gherardini, è introdotta da una breve ma significativa sequenza in un cabaret, dove si fa più allusivo il tema della sessualità repressa: Giovanni e Lidia si scambiano sporadiche ed inconcludenti parole, mentre una coppia di ballerini mezzi nudi si lancia in una performance pregna di erotismo selvaggio. E’ il preludio alla diaspora, morale, sentimentale e passionale, che si consumerà nella villa dei Gherardini.
In questa splendida pagina di cinema, dove l’indagine di costume si sposa abilmente all’analisi dei sentimenti, Antonioni si serve di balconi, vetrate, scalinate e altri elementi architettonici per delineare i rapporti fra i personaggi e suggerirne la reciproca distanza. E’ una prassi molto creativa e sottile, che in mani meno sensibili sarebbe probabilmente caduta nel manierismo, in una eleganza fine a se stessa. In Antonioni invece non viene mai meno la misura, il rigore, la pregnanza di ogni gesto, sguardo o inquadratura; così come ovviamente vengono abilmente evitate le svariate trappole melò a cui la trama si presta. La regia percorre quell’esile ed insidioso binario che separa il simbolismo dal realismo: in questo modo, l’approccio oggettivo, fenomenologico di Antonioni alla realtà rappresentata non si riduce mai ad una sterile registrazione di eventi, ma suggerisce invece letture anche fantasiose. Un fulgido esempio di questa estetica si trova nella splendida sequenza in cui Giovanni osserva Valentina da una vetrata: per qualche secondo vediamo il riflesso dell’uomo, come se si trattasse di un fantasma, di una epifania, ma basta un semplice movimento di macchina verso destra per svelare il trucco e riportare alla nuda realtà dei fatti. In questa sobria ma complessa scena è racchiusa tutta la teoria antonioniana della fallacia dello sguardo, della vi(s)ta come illusione. Un altro momento di straordinaria poesia è il dialogo in macchina sotto la pioggia battente fra Lidia e lo sconosciuto: lo vediamo dall’esterno, scorgiamo le due persone parlare e sorridere, ma non sentiamo le loro parole. Come dire: non c’è possibilità di un nuovo amore, non c’è vera comunicazione, non c’è dialogo che sia degno di essere ascoltato. C’è solo un fugace momento di spensieratezza.
Nel finale poi Antonioni scompone lo spazio come solo lui sapeva fare, chiudendo il fedifrago Giovanni, la sua amante occasionale Valentina e l’affranta Lidia in una camera, ponendo i tre volti su tre piani diversi fino ad una pacata ma beffarda resa dei conti: Valentina, col suo flirt, non ha affatto ucciso un matrimonio, ma ha di fatto aiutato i coniugi a smascherare la loro stanca commedia coniugale. Valentina è stata, in qualche modo, fatalmente, “usata” dai due coniugi. Ed ecco infine Giovanni e Lidia abbandonare la casa, dirigendosi verso il vuoto agghiacciante di un prato, lontani da tutti: si renderanno conto non solo di non essere più innamorati l’uno dell’altra, ma di non essere più nemmeno se stessi (Giovanni non si ricorda di una poesia che scrisse per lei, anni prima). Il cambiamento, della società e con essa delle persone, di cui si diceva prima, ha quindi come estremo effetto l’alienazione. Non resta allora che lanciarsi in un amplesso disperato, la reazione residua di due corpi che procedono per inerzia al naufragio della loro anima. Eviterei analisi sulle interpretazioni di Mastroianni e Moreau, perché quando ci sono di mezzo il miglior attore italiano di tutti i tempi e una delle migliori attrici francesi, il risultato non può che essere sublime.
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