Regia di Nobuhiro Doi vedi scheda film
C’è la statua di un grifone (kirin) sul ponte di Nihonbashi, il quartiere di antiche origini che rappresenta il cuore di Tokyo. La leggenda vuole che la storia della città sia partita proprio da lì. È per questo che a quel piccolo drago sono state aggiunte le ali, a significare che da quel luogo ogni giapponese può raggiungere, in volo, ogni angolo del pianeta. Quella figura mitologica è la chiave di un giallo che, in oltre due ore di pellicola, non cessa mai di rivelare lati nascosti e riservare svolte inattese. La crosta dell’apparenza, in questo caso, è una scorza eccezionalmente dura, robustamente impastata nell’evidenza, che solo la tenacia dell’investigatore Kaga può, pazientemente, scalfire un po’ alla volta. La verità è coperta da uno spesso sedimento di menzogne, alcune moralmente sbagliate, altre pronunciate a fin di bene, per dare conforto, per espiare una colpa, o per non aumentare la sofferenza. Il sentimento, al pari della vigliaccheria, a volte utilizza un codice cifrato per manifestare le proprie intenzioni. La manovra laterale, il senso traslato, la sostituzione sono gli ingredienti base di un percorso labirintico, che prende avvio dall’errore per poi chiudersi, splendidamente, su un sigillo di eterno amore. Nel romanzo di Keigo Higashino, dal quale il film è tratto, l’intrigo del thriller, lungi dall’essere un artificio cerebrale, è un’acrobazia danzante che attinge il proprio carattere enigmatico e involuto direttamente dalla naturale complessità della vita, con i suoi sotterfugi ed equivoci, con i silenzi che vorrebbero, perlopiù invano, aggirare il dolore. Nella sceneggiatura di Takeharu Sakurai, il cinema nipponico, per un attimo, mette da parte le confessioni ed il parlare sincero dei racconti familiari di Yasujiro Ozu, per ritornare al tradizionale teatro delle maschere, delle metamorfosi, in cui nulla e nessuno è quello che sembra. Col tempo, sono cambiati i mezzi di camuffamento (vedi gli ingannevoli nickname ed avatar usati dai frequentatori dei blog), ma è rimasto inalterato l’atavico desiderio, di stampo prettamente religioso, di affidarsi ai simboli (immagini votive appese ai rami di un albero, collane di uccelli di carta colorata deposte sugli altari) per trasmettere un messaggio volutamente criptato, in cui il mittente si cela, perché il contenuto giunga esclusivamente al ricevente a cui è destinato: un dio, un figlio, una madre in difficoltà, la donna amata. È la forma poetica di un romanticismo disperato, avvolto nella crudezza di un mondo in cui la competizione è l’anima del progresso, ma anche la causa di una lotta spietata, nella quale la posta in gioco, per alcuni, è l’affermazione personale, mentre per altri è la pura e semplice sopravvivenza. Non è un caso se la vicenda ruota intorno ai temi della mancata tutela dei lavoratori, della disoccupazione, dei risvolti negativi dell’agonismo sportivo, della crisi individuale scatenata dal senso d’inadeguatezza. È troppo facile, a questo proposito, invocare, a titolo di sintesi, il solito concetto della società malata di arrivismo: il punto è che l’ambizione e il bisogno materiale si intrecciano, inevitabilmente, con i rapporti umani, il che rende la faccenda assai complicata, come il film di Nobuhiro Doi brillantemente ci spiega.
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