Regia di Sylvain Estibal vedi scheda film
Un intelligente divertissement condito con una dose massiccia di satira sociale che si spinge fino all’estremismo religioso e che sfrutta magistralmente il gustoso paradosso di partenza per costruirci sopra una commedia che utilizza i classici stilemi ben rodati degli inganni, dei sotterfugi, delle deliberate finzioni (equivoci compresi).
Fra tutte le dimenticabili ciofeche che sono state sdoganate negli ultimi due mesi per la programmazione in sala di una stagione ormai agonizzante, ci sono state comunque anche interessanti, godibilissime proposte spesso recuperate dal passato prossimo (i fondi di magazzino di un cinema di qualità residuale buttato comunque allo sbaraglio e senza molta convinzione, e come tale, già perdente in partenza – parlo di visibilità ovviamente – perché davvero difficile da intercettare, soprattutto se ci si aggiunge la ormai consolidata pigrizia dello spettatore).
Condivido insomma in pieno ciò che ha scritto @ nickoftime in apertura della sua recensione a 22 Jump Street, e cioè che anche “in un cartellone cinematografico regalato all'improvvisazione e alla scarsa lungimiranza distributiva, può verificarsi quello che non ti aspetti, e cioè l'uscita di un film che oltre al divertimento ha pure un pò di sale in zucca”: basta avere la costanza (e la pazienza) per andarcelo a cercare.
Le cochon de Gaza (per altro stupidamente rititolato per l’Italia Un insolito naufrago nell’inquieto mare d’orientescimmiottando banalmente - e anche inutilmente - la Wertmuller, visto come poi sono andate le cose e le risibili presenze che è riuscito a racimolare) è indubbiamente un’altra di queste positive eccezioni che riguarda un’opera abbastanza stagionata, visto che è del 2011, acquistata e resa visibile da una piccola distribuzione come la Parthénos. E questo nonostante che si trattasse di un film che nel 2012 aveva addirittura vinto il César come migliore opera prima: indebitamente snobbato a suo tempo dalla nostra distribuzione più blasonata, non è riuscito purtroppo a trovare una collocazione più decente e appropriata nemmeno adesso, e si è dovuto accontentare di questa sua fugace apparizione passata del tutto inosservata.
L’interessante debutto in veste di regista di Sylvain Estibal (autore anche della scoppiettante sceneggiatura) è all’apparenza un sapido e intelligente “divertissement” tutt’altro che fine a se stesso però, poiché riesce a sfruttare magistralmente il gustoso paradosso dell’indovinatissima trovata di partenza (cosa succede quando un pescatore di religione musulmana tira su le reti e dentro anziché tonni, sardine o altri pesci, ci trova un maiale vivo e vegeto?) per costruirci sopra una commedia che pone molti quesiti, lancia importanti messaggi e suggerisce qualche seria riflessione che prende forma all’interno di situazioni sempre molto divertenti (ma anche profondamente amare) utilizzando i classici stilemi tutti ben rodati e sperimentati, degli inganni, dei sotterfugi, delle deliberate finzioni (equivoci compresi), dei camuffamenti e delle allegorie, il tutto condito con moltissima satira sociale che si spinge fino all’estremismo religioso.
Questo, non solo perchè l’idea si presta già di per sé a molteplici significati e sviluppi narrativi tutti giocati dal regista con consumato mestiere, ma anche e soprattutto perché l’azione si svolge (non casualmente) a Gaza (emblematica striscia di terra ancora in queste tragiche settimane epicentro di una escalation di violenza e di una sanguinosa repressione militare che sembra essere il frutto di una volontà superiore che non intende risolvere un problema gravissimo e ormai diventato endemico – quello della convivenza pacifica fra ebrei e musulmani e ogni altra possibile religione e dove a pagare il fio ,è sempre l’incolpevole popolazione della povera gente).
Non è che la guerra c’entri qualcosa con questo film, devo precisarlo per non essere frainteso, ma è il clima di sospetto, le ripicche, le vessazioni che anche in tempo di pace si consumano nell’indifferenza generale che attraversano tutta la pellicola che consentono di fare qualche parallelo anche se azzardato. L’indifferenza infatti non cambia sostanzialmente nemmeno quando i focolai di guerriglia costante e sotterranea si fanno più virulenti e si trasformano in sanguinose battaglie per le strade dove tutti sembrano avere qualche ragione ma al tempo stesso anche altrettanti torti (e ci si domanda allora cosa ci stia a fare l’ONU con i suoi alti costi di inutile e infruttifera gestione che tutti paghiamo salatamene, se la sua farraginosa composizione trasversale, i suoi “veti incrociati” e la sua ormai evidente impotenza strutturale,che non gli consentono di fare davvero qualcosa di concreto, diventa una insopportabile zavorra di inutile buonismo fatto di troppe chiacchiere e di nessuna azione).
Ritornando al film, probabilmente questa è stata una delle poche volte che si è provato – cinematograficamente parlando – ad esporre il dramma di quei territori di confine con intelligente ironia, ma non per questo con minore serietà e determinazione. Se i potenti delle due fazioni ci riflettessero con maggiore convinzione andando oltre a questo infruttuoso dialogo fra sordi, sicuramente qualche risultato arriverebbe anche dalla politica, statene certi.
Considerando l’attuale situazione, fa comunque un po’ male vederla solo adesso questa pellicola, poiché immaginando la condizione reale che quel territorio martoriato sta vivendo proprio in questi giorni, anche il sorriso finisce per tramutarsi in una smorfia di dolore.
Al di là di queste considerazioni tutte personali, il film si conferma comunque come una lavoro molto indovinato e divertente, oltre che problematicamente surreale che ha il pregio di invitare a riconsiderare seriamente (guerra o non guerra) un problema che è centrale e che riguarda un po’ tutti, quello della convivenza pacifica e soprattutto tollerante, fra popoli di differente etnia, religione (e anche di colore della pelle).
Se vogliamo provare a fare qualche paragone, il film lo potremmo definire una specie di commedia dell’arte (Arlecchino che si confessò burlando, come si dice in genere in queste circostanze) che tiene conto però anche delle modalità di rappresentazione delle cose indirettamente mutuate dalla ormai lontana straordinaria stagione della gloriosa commedia all’italiana (anche se il regista – ammesso che la cosa sia nella sua agenda – ha molta strada da percorrere per poter anche solo aspirare ad essere paragonato a un Monicelli, un Risi o uno Scola) e questo non solo per la forte critica sociale della sua satira a cui accennavo prima, ma anche e soprattutto per le sorprese spiazzanti e i rovesciamenti di senso che propone, per realizzare i quali Estibal può contare sull’apporto creativo di uno strepitoso protagonista (Sasson Gabay) che veste i panni di Jafar (un personaggio che disegna a tutto tondo con una prova davvero magistrale), il povero pescatore alle prese con quell’essere intoccabile che si chiama “maiale” che tutta la sua gente – lui compreso - teme ed aborre poiché con la sua presenza può contaminare persino la terra che calpesta e tutto ciò che lo circonda.
Gabay è insomma perfetto nel tratteggiare una figura che per tutto il film si trova a fronteggiare le situazioni più assurde che gli piovono addosso e a subire di conseguenza le volontà altrui che gli vengono imposte dall’alto, religione compresa.
Lui è un uomo comune, e come tale, è costretto a vivere una vita che non gli appartiene, e dove ogni scelta individuale sembra essere preclusa da un ordine superiore che è chiamato a decidere e imporre i destini a persone che sembrano non avere altra scelta che quella di sottomettersi passivamente.
Per capire quanto è bravo l’attore che lo interpreta, basta seguirlo con adeguata attenzione (soffermandosi soprattutto sulla sua faccia contrita e sul suo sguardo fra l’attonito e il rassegnato) mentre si aggira con il suo carretto per le impolverate strade di Gaza alla ricerca di una soluzione al suo problema, che è poi quello di trovare un modo per sbarazzarsi di quella scomoda bestia che lui non può nemmeno toccare perché impura (ma che non riesce nemmeno ad ammazzare visto che non ha mai preso in mano un fucile e non sa sparare) e che è costretto a nascondere fra mille sotterfugi per non essere accusato di tradimento se ne venisse trovato in possesso, poiché nessuno potrebbe credere al suo racconto, visto che gli israeliani a pochi metri di distanza allevano i maiali come animali anti-mina e lui potrebbe essere sospettato di aver attinto a tale fonte spinto da qualche inconfessabile ragione.
Jafar (che resta un mussulmano) interpreta tutto questo come una punizione divina per essere stato una persona che socializza troppo col nemico e che non si scompone se sul suo tetto sono appostati due soldati israeliani che hanno il compito di tenere sotto controllo la situazione, ed è persino tollerante nel non opporsi al fatto che uno di essi scenda ogni pomeriggio dentro la sua casa, per guardare insieme a sua moglie una appassionante telenovela brasiliana.
Mi fermo ovviamente qui e non vado oltre per non turbare il piacere della visione. Accenno solamente che alla fine Jafar qualche importante e ingegnosa iniziativa la prende, visto che in fondo a dividere Israele dalla Palestina c’è soltanto un muro e si può persino provare a “trattare” col nemico perchè quella bestiola può diventare persino una insperata fonte di guadagno e trasformarsi di conseguenza funzionale alla lotta per la sopravvivenza reciproca, e in questa grottesca ricerca di una soluzione tra politica e buon senso, sono molte le sequenze divertenti (vedi, l’esilarante scena con Ulrich Tukur nei panni di un esasperato funzionario delle Nazioni Unite).
A un certo punto della storia comunque, il film sembra correre il rischio di andare in stallo, schiacciato dall’ingombrante peso della sua stessa folgorante idea, ma per fortuna dopo qualche piccolo perdonabile sbandamento riprende subito quota fino ad arrivare alla potente sequenza conclusiva, straziante ma piena di vita, che è a mio avviso un momento di alta poesia.
Da segnalare ancora la prepotente forza affabulatrice della bellissima fotografia smorzata e “polverosa” di Romain Winding che cattura, registra e ritrasmette con rara efficacia, la miseria del posto e la sua desolante condizione.
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