Regia di Luigi Magni vedi scheda film
Un ottimo film sul nostro Risorgimento. Costruito per la Tv, è un fiore all’occhiello della Rai (che negli ultimi 30 anni ha fatto ben di peggio), per: onestà intellettuale, aliena dalla retorica che sempre invece infesta questi tentativi; rigore storico sugli aspetti rilevanti; buona recitazione e buon cast, fatta la tara per le esigenze televisive; ottime scenografia e costumi. Quasi 7 ore non stancano affatto.
Il protagonista è il regista Luigi Magni, cantore assolutamente sottovalutato della verità dell’unificazione e in generale dell’800 italiani, anche con prodotti di grande livello (“Nell’anno del Signore”, “Tosca”, “In nome del papa re”, solo per citarne alcuni). Qui il regista romano riesce a coniugare il consueto rigore storico con la necessità televisiva/governativa di imbonire le plebi, con questo merito però: mai cadere in un’operazione al ribasso. Ha scritto soggetto e sceneggiatura, assieme ad altri professionisti del campo come Benvenuti e De Bernardi, e soprattutto ad uno storico come Arrigo Petacco.
Ha alternato bene le storie d’amore, sempre con finezza, anche per accattivare il pubblico femminile, a quelle di analisi storica, che invece hanno richiesto nello spettatore una competenza notevole, per essere seguita: qui si sono sviscerati in tutta la loro complessità i fatti più significativi del periodo trattato, che i profani, la maggioranza, non possono conoscere se non grazie a un’opera divulgativa di questo livello. Ottime anche le scene di guerra, sul Volturno. Notevole l’accompagnamento musicale di Piovani. Positiva pure la fotografia.
Bravo Franco Nero, immerso nella difficile parte di un condottiero irruente, prodigio militare. Recitano anche ottimi protagonisti del teatro italiano d’allora: Cosimo Cinieri come Bertani; Memè Perlini come Dumas; Glauco Mauri come De Pretis. Ma pure Flavio Bucci come Mazzini; Philippe Leroy come Cialdini; Erland Josephson come Cavour (splendido ritratto psicologico, specie nelle sue debolezze, nei riguardi del fratello e non); Jacques Perrin come Vittorio Emanuele II; Mariano Rigillo come don Liborio Romano, capo massimo a Napoli in quanto capo della camorra. Andrebbero citate anche tante figure femminili, specie Angela Molina come Battistina, ultima donna di Garibaldi, popolana, nel contempo fiera e vergognosa di essere tale; ma non si può tacere il valore aggiunto della bellezza folgorante di Lara Nakszynski.
Un’opera monumentale, intessuta con organicità tra mille particolari, che restituisce il senso di fondo della nostra unificazione. Piaccia o no, è una storia molto più negativa che altro. La storia dell’inganno che l’ingenuo Garibaldi si è fatto servire da Cavour e dal re, che lo hanno dapprima irretito nella Società nazionale italiana: quella che vedeva in quanto imprescindibile la liberazione dallo straniero, e perciò l’unificazione degli italiani, come promossa dai Savoia, dopo i ventennali fallimenti dei mazziniani, e perciò dei democratici in generale.
Garibaldi, per la sua incapacità politica, ha così svenduto i democratici, ma anche se stesso. Ha fatto un regalo agli oppressori contro cui lui stesso aveva sempre combattuto: Mazzini (e Cattaneo, che qui non compare, e altri) avevano ragione di accusarlo di tradire l’unica causa che aveva servito, e senza nemmeno accorgersene. Ha regalato il Sud, e quindi il regno d’Italia, ai Savoia, che erano degli oppressori quanto i Borbone e tanti altri, alla fin della fiera.
Gli oppressi sono riamasti tali; e gli oppressori hanno festeggiato, ancora una volta. Sotto altre vesti: sembrava che i piemontesi fossero meni illiberali di altri. Ma non è stato così. Magni mostra le disillusioni di Garibaldi (ma colpevolmente ingenuo), da deputato, mentre vedeva i suoi compagni d’arme, suoi sottoposti, come dei venduti al nuovo regno, che aveva ingannato tutti.
Come scrisse Tomasi di Lampedusa, nell’arcinoto aforisma del Gattopardo, in merito alle medesime vicende risorgimentali: «L’importante è che tutto cambi, perché nulla cambi»
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