Regia di Tony Kaye vedi scheda film
A tredici anni di distanza da “American history X”, un film di Tony Kaye giunge nuovamente, e con merito (anche del piccolo distributore Officine Ubu), sui nostri schemi e l’occasione è proficua anche per ricordarci quanto sia bravo Adrien Brody, attore che raramente negli ultimi anni ha partecipato a film degni della sua capacità interpretativa.
Henry Barthes (Adrien Brody) è un supplente chiamato ad insegnare per un mese in un liceo dove i ragazzi sono ormai fuori controllo, frutto della società in cui sono chiamati a crescere.
Mette all’opera metodi che si rifanno alla sua esperienza di vita e da ciò che ha imparato leggendo, mentre nella vita fuori dalla scuola non rinuncia mai ad aiutare chi sta peggio di lui, come Erika (Sami Gayle), una giovanissima prostituta sola al mondo.
“Detachment” non è certo un film banale sia per come parla del mondo della scuola, ma soprattutto di esistenza, sia per come riprende il tutto, creando un complesso visivo spiazzante, forse anche un po’ pretestuoso, ma con alcune idee che vanno ben oltre lo schematismo tipico di un cinema programmatico come invece spesso capita di vedere in film che si occupano di queste argomentazioni.
In tal senso sono notevolissimi gli intermezzi grafici che in poche immagini, ferme o in mutazione che siano, riescono a descrivere stati d’animo e di fatto con un’accortezza quasi disarmante.
Ma poi si vede nitidamente anche come sia stato un film fortemente voluto e quindi sentito, scritto con vigore, ma anche consapevolezza e metodo, forse un po’ troppo pieno di umori e personaggi, che comunque vanno a riempire un quadro ampio che mette insieme tristezza e un po’ di (necessaria) speranza.
Così assistiamo a scene fortissime (ad esempio quella della violenza su un povero gatto) ed a atti di bontà in un mondo impossibile che non sempre portano ai risultati sperati, ma se nemmeno ci si prova di certo non si può ottenere nulla; tutto inquadrato in una sorta di sguardo sulla precarietà (lavorativa, e non solo, per Henry, emotiva, e/o morale per altri) dello stato esistenziale personale e di sistema.
Ed il film si eleva ulteriormente grazie alla performance strepitosa di Adrien Brody (di gran lunga la sua migliore intepretazione da qualche anno a questa parte) e si avvale di contributi secondari, per numero di scene, di tanti interpreti di spessore, tra gli altri mi piace ricordare il volto segnato di James Caan, la rassegnazione cosmica di Tim Blake Nelson, la disperazione di Marcia Gay Harden e l’ardimentosità di Lucy Liu.
Un film forte, denso ed ampio, forse recepibile anche come “furbo” (alcuni tratti drammatici presenti potrebbero farlo intendere), ma dannatamente loquace ed intraprendente.
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