Regia di Tony Kaye vedi scheda film
Detachment - Il distacco è un notevole, vibrante, teso affresco della società moderna, avente il valore di un documento storico. Da guardare con attenzione. Da studiare (M Valdemar).
Detachment - Il distacco è un film che allontana e che unisce.
Il personale distacco da tutto e tutti - quale salvifica filosofia di vita (bradipo698) - convive indissolubilmente, infatti, con la consapevolezza che quando le cicatrici di vecchi traumi stentano a rimarginarsi ed il disagio dell’esistenza che arranca seguita a incidere la pelle tanto dell’adulto cui è stata demandata la missione educativa, quanto dell’adolescente che sogna, senza saperlo, un futuro di ecatombe, la convergenza verso un’unica, grande (eppur silenziosissima) denuncia sociale appare l’unica via praticabile.
Il pesce puzza dalla testa.
Un contagioso pessimismo cosmico argomenta, infatti, le ragioni di un fallimento che si trasmette di generazione in generazione e che schiude un’emorragia inarrestabile.
Quando i vincoli familiari si sfaldano; quando ogni punto di riferimento viene a mancare, come ci si può dare pace? Come si può contenere il caos emotivo che scuote abitualmente qualsiasi essere umano, quando questi è poco più di un bambino e tutto crolla attorno a lui?
Come si può desiderare di vivere solo un altro giorno in più?
Se le ingiurie gratuite sono coltelli che nella carne del prossimo trovano la loro mola ideale, quando gli occhi altrui ti si posano addosso, ma non ti vedono; quando scrutano ogni tuo minimo gesto, ma, semplicemente, ti penetrano da parte a parte e vanno oltre, creano ferite ancora più profonde. Annullano l’esistenza.
Così, forse, di fronte alla tragedia della vita, in tutte le su sfaccettature, l’unica via d’uscita è davvero il “distacco”. La presa di distanza dagli altri e da se stessi, pur rispondendo sempre ”presente” al quotidiano appello del mondo.
Ma innanzi all’implosione del nucleo famigliare, può l’istituzione scolastica permettersi di gettare anch’essa la spugna e rimandare tutto a data da destinarsi? Può accettare anch’essa la sconfitta e l’idea di scaricare ad altri la responsabilità non (più) dell’educazione dei propri figli (oramai impossibile da garantire), ma dell’inserimento, nella società, di diseredati e mine vaganti?
La società stessa può davvero credere ad una cosa ed, al contempo, al suo opposto? Che voltando lo sguardo dall’altra parte, riuscirà comunque lì dove la scuola e la famiglia hanno fallito?
Così, all’ultimo, anche Henry Barthes (A.Brody), forse, accetta di rinunciare a quanto lo ha tenuto in vita fino a quel momento; all’idea che pur mantenendo le distanze, si possa ugualmente vincere la diffidenza di chi, quel distacco, vorrebbe forse colmarlo, ma non conosce il modo per farlo.
Il tenerissimo abbraccio della penultima scena - che custodisce la speranza di una rinascita vera - mi fa credere che sia andata proprio così.
Bravissimo A.Brody, ma davvero in parte si dimostrano, invero, anche tutti i comprimari, a partire dal mitico J.Caan, capace di padroneggiare con disinvoltura l’arma, a doppio taglio, del sarcasmo (quando si lascia andare ad un’indicibile confessione all’amica Doris/Lucy Liu, a proposito della sorte che riserverebbe a molti adulti di oggi e ai loro adorati pargoletti, non si sa se ridere o rimanere sgomenti).
Brillante l’uso che Tony Kaye fa della tecnica del flusso di coscienza (Deiv90).
Gli occhi malinconici e i logoranti turbamenti - sottoforma di confessioni segrete ed incubi che ricorrono all’infinito - del professor Barthes sono funzionali alla descrizione non tanto del fallimento del sistema “educativo” di un paese, ma del fallimento del paese stesso. L’approccio registico prescelto sembrerebbe, infatti, circoscrivere l’analisi ad una dimensione più intima, eppure il film, a ben riflettere, fa il punto della situazione sullo stato di salute della nostra società e di una delle sue più cardinali istituzioni (benché sovraccaricata di responsabilità - da ultimo, finanche, dal mercato immobiliare - e sistematicamente sottostimata al tempo stesso).
Così, la visionaria regia di Kaye cuce assieme istantanee di emozioni divergenti, dettagli di volti affranti e tormentati con frammenti di vita autentica e ne fa un lucido manifesto, di quelli da esporre in bella mostra in una pigra giornata qualsiasi, mentre l’umanità gli scorre a fianco, frenetica e indifferente come sempre.
Un manifesto della complessità umana dal valore universale, ma, nondimeno, destinato ad ammonire pochi. E, per di più, quei pochi che - essendo stati disposti a prendersi il loro tempo per guardarlo con attenzione - avranno dato prova di non essere i diretti destinatari cui aveva pensato l’autore del manifesto medesimo.
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