Regia di Tony Kaye vedi scheda film
La facilità dell’indignazione. Ci vuole grazia per raccontare l’indignazione; e se non grazia, una certa raffinatezza stilistica, o almeno tematica; e se non c’è neanche quella, non resta che l’intenzione, e l’intenzione non fa un film. Casi umani dentro e fuori scuola vengono filmati grossolanamente da Tony Kaye, un’umanità che non sa più cos’è la felicità. Finché la vittima di turno, buona, con trauma infantile sulle spalle, cerca di trasmettere qualcosa a ragazzi disadattati e con altrettanti problemi in famiglia.
È facile prendersela col mondo, è facile la crudeltà, ma non è facile evitare il gratuito, lo shock, verbale o mostrato, che possa scuotere il cittadino benestante e acculturato sulla poltrona. È facile la provocazione, non è facile andare oltre l’immagine e l’interpretazione più superflua per scavare fino alle radici profonde dei problemi. Se c’è solo l’intenzione, potrebbe esserci almeno la coerenza, ma in “Detachment” non c’è neanche quella.
Le affermazioni sulla gioventù bruciata (e ormai incenerita), che sembra fare il verso alla diseducazione della gioventù da banlieu parigina, sono vecchie e risapute, le psicologie dei personaggi sono inverosimili e tendenti all’ovvio e al prevedibile, caratteri costruiti a tavolino, a cui le disgrazie capitano sempre con una tale frequenza e una tale ripetitività che più che piangere per loro, snerva l’attività nulla di sceneggiatori che premono l’acceleratore sul melenso e sul patetico, spacciandolo per il lato positivo e umano di una vicenda sporca e disumana, appunto. Dozzinale, e con uno stile frammentario e superfluo che rende il tutto più arrogante e ipocrita, come se il regista si volesse dare un’aria da autore e creare un nuovo cult che possa scuotere la nuova generazione. Ridicolo in particolar modo rischiare di trasformare tutta la pellicola in un’arida inchiesta, con tutte le interviste all’inizio, e il volto piangente del protagonista che si dispera di fronte al proprio fallimento. Ma non è sapiente variazione, alternare gente che urla parolacce e cattiverie varie alla dimostrazione del vero affetto fra i vari personaggi (la giovane prostituta che si affeziona immediatamente, il perdono da parte del protagonista della madre suicida e del nonno dall’oscuro passato), è piuttosto la dimostrazione di non sapere dove andare a parare, e di non sapere come dirigere una scena senza una pressante e immancabile musica di sottofondo, che ti fa capire da subito, come indicazioni in sovraimpressione, se sei in una di quelle scene tristi o in una di quelle commoventi. E alla fine il perdono è per (quasi) tutti.
L’unica immagine potente di tutto il film è quella di Brody che legge di fronte a una classe vuota e distrutta, con i banchi rovesciati, e quella del corridoio da cui sembra passato un apocalittico tornado, con foglie e polvere dappertutto. Ma oggigiorno, in particolar modo nei film drammatici, è più coraggioso e meno facile concedere il lieto fine che consegnarne uno devastante.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta