Regia di Tony Kaye vedi scheda film
L’insegnante Henry Barthes, supplente in un liceo pubblico, durante una lezione chiede cosa leghi il concetto di assimilazione a quello di ubiquità. Gli studenti rispondono in maniera esatta, non siamo di fronte ai brillanti figli dei campus, il materiale umano è più vicino alla Classe di Cantet e alle scuole di Van Sant. I corridoi percorsi dall’occhio del regista Tony Kaye e dagli studenti sono uguali in tutte le parti del mondo, fra colori stucchevoli dell’infanzia perduta e ambienti scrostati che preludono alla vita adulta. La loro mente e quella dei loro insegnanti è come la superficie di quella lavagna che ci accompagna dai titoli di testa a saltuarie apparizioni grafiche lungo il film, con pensieri scritti, disegni, citazioni, riferimenti letterari che una volta riportati alla luce possono essere cancellati con un semplice colpo di spugna. Detachment mette al centro del suo racconto la figura dell’insegnante, del suo difficile ruolo di mediatore e di congiunzione con il mondo adulto. Quest’ultimo viene rappresentato completamente alla deriva, morale e non solo, privo di ogni valore di riferimento e di autorevolezza, capace solo di delegare alla scuola le proprie mancanze e le proprie responsabilità. La scuola appare così completamente slegata, svuotata di senso, lontana e troppo diversa dalla realtà. Barthes attiva dentro di sé l’antidoto all’assurdità della vita, all’ assoluto senso di solitudine che lo separa dagli altri, prende spunto dalle parole dei passi de Lo straniero di A.Camus,, con il suo distacco dal mondo che lo protegge in ogni situazione. Mentre affiora a strappi la vicenda personale che si trascina dietro, avviata alla sua rimozione, le nuove esperienze fuori e dentro la scuola lo spingono a diminuire le sue difese e a cercare di focalizzare un nuovo approccio comunicativo che non può prescindere dalla consapevolezza, dai limiti, dalle aspirazioni, dall’ascolto di chi lo circonda, pagando anche un prezzo a volte doloroso. Sfruttando l’ottima interpretazione di Adrien Brody nel ruolo del supplente, il regista Tony Kaye decostruisce il suo personaggio in maniera non convenzionale e con una cura dettagliata per l’immagine e con la profondità del testo , lo mette a nudo, con le sue contraddizioni e le inevitabili difficoltà nel rapportarsi con il gruppo dei giovani studenti. La chiusura del film è drammatica e poetica, non siamo di fronte alle declamazioni del “capitano, mio capitano” di Withman ( L’ Attimo Fuggente di Weir), Barthes chiede ai ragazzi a quanti è successo di sentire un peso che gli schiaccia il petto, tutti alzano la mano, ma lui lo fa per primo, e pur confessando che lui stesso è davanti a qualcosa di immensamente più grande, creare e stimolare coscienze, e che da solo non può bastare per la loro formazione, gli legge La caduta della casa degli Usher di Poe, che fra i banchi vuoti e rovesciati , l’aria impolverata, e fogli pieni di parole che volano, rappresenta bene quelle macerie da cui inevitabilmente cogliere qualcosa di estremamente reale e da cui forse ripartire.
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