Regia di Tony Kaye vedi scheda film
Il distacco è una innaturale ricollocazione. È un forzato contatto con l’altro da sé, che aiuta ad accorciare le distanze con ciò che, a prima vista, può sembrare estraneo. Henry Barthes è chiamato come supplente di inglese in una classe di ragazzi difficili. Non conosce nulla di loro e dei loro problemi, però è convinto che non sia certo facendoli sentire diversi che si potrà sperare di recuperarli. Sono abituati ad essere studiati e trattati come casi speciali, ma nessuno si è mai veramente interessato a far affiorare ciò che, in loro, v’è di sano e positivo. Basterebbe anche solo scoprire la loro voglia di parlare di sé, delle proprie angosce, del proprio tormentato rapporto con l’ambiente circostante. Tacere e stare in disparte equivale infatti a lasciare che il male continui la sua opera devastatrice. Henry lo sa bene, perché è cresciuto all’ombra di un terribile segreto, che ha provocato il suicidio di sua madre. L’oblio sta uccidendo anche suo nonno, la cui mente è consumata da una malattia degenerativa, che sta cancellando le memorie di una vita. I suoi pensieri sono ormai andati fuori posto, come l’esistenza di quella ragazzina, sola al mondo e costretta a prostituirsi in strada, a cui Henry decide di offrire alloggio ed assistenza. Riportare i tasselli nella posizione giusta è un compito pressoché impossibile, se il punto di partenza è il caos. Fare l’insegnante, a volte, significa sentirsi impotenti, e non sapere da quale parte cominciare. È una condizione sconsolante, in cui Henry ed i suoi colleghi confessano di trovarsi spesso. Si tratta di rimettere insieme i pezzi di un rompicapo impazzito, che, per di più, ci mostra il suo rovescio, paragonabile ad un volto senza connotati. Un’identità distrutta che non vuol farsi conoscere. C’è tanta voglia di scavare nelle situazioni, in questo film che ama le inquadrature oblique, le prospettive allungate, le riprese ispirate ad una curiosità amatoriale, gli inserti con confessioni da reality televisivo. Eppure nulla sfugge di mano ad una regia che interpreta il realismo attraverso il velo della poesia, che sa mettere in rima anche le espressioni più volgari. L’esperienza d Henry Barthes è letteratura che insegna alla realtà a farsi arte, anche quando la rabbia preme per uscire dagli argini. È un impegno ed un invito a conferire al proprio sentire la dignità delle cose rare, autentiche ed irripetibili, che, se necessario, si tingono anche del fosco colore della tristezza. L’importante è che, nel loro sea of pain, riescano ad emergere, mantenendosi a galla, e resistendo alla corrente. La giovane Meredith viene rimproverata dal padre, perché i suoi disegni ed i suoi collage fotografici sono cupi ed inquietanti. Henry cerca di farle capire che quelle opere sono l’espressione della sua personale creatività, e denotano un grande talento. Siamo tutti uguali nella sofferenza, nella sensazione di essere soli ed incompresi, ma diverso è il modo in cui ciascuno di noi può reagire, dando un senso alla propria esistenza. Henry prende di petto le cose che non vanno, e ci mette veramente il cuore, anche quando le sue azioni sono fuori dalla norma, e tali da suscitare imbarazzo, in lui come negli altri. Si muove a tentoni, nella speranza di arrivare a toccare un appiglio, su cui impostare un discorso che sviluppi nuovi pensieri. Ma la desolazione dell’anima, purtroppo, è un avversario duro da sconfiggere: così alcune pagine resteranno vuote, altre rimarranno nascoste oppure scritte nell’anonimato. Il buio si oppone pervicacemente alla luce. Per quanto si viaggi, si continuerà ad incontrarlo, in ogni luogo. Non si potrà evitare di approdare, come Edgar Allan Poe, allo squallore della casa Usher, che è la metafora della disperazione, da cui nessuno è immune, neanche i più tenaci, perché fallire fa, sempre e comunque, parte del gioco.
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