Regia di Lelio Luttazzi vedi scheda film
C’è un modo di fare cinema in cui il narrare asseconda, in maniera prudente e ossequiosa, il libero corso dei pensieri. E che magari, come in questo caso, non teme, lungo il cammino, di sprofondare negli abissi dell’allucinazione, dell’ossessione, della paranoia. Lelio Luttazzi mescola la superficialità del chiacchiericcio "impegnato" con la serietà delle depravazioni nascoste, che producono, nella mente, immagini oscene ed ipotesi inquietanti. L’illazione è il sospetto scandaloso che si fonda sul nulla, e per questo è impermeabile alle argomentazioni concrete, insensibile alle logiche della concretezza. Ognuno, dentro di sé, può coltivare congetture mostruose, alimentate da indizi snaturati, costretti a diventare, loro malgrado, prove a suffragio di una realtà deviata, che pure si sceglie di seguire fedelmente come l’intima custode della propria preziosa verità. Dove l’evidenza non arriva, giunge pronta l’immaginazione perversa, che ama creare da sé i particolari demoni da venerare. In questo senso, non c’è differenza tra il culto dello spiritismo e il giustizialismo spinto, che si compiace della presunzione di colpevolezza. In entrambe le pratiche, si ama e si invoca ciò di cui si ha paura: il fantasma malefico, l’orrore della criminalità. Poterci giocare è la prerogativa di chi, per hobby o professione, vede nella propria esclusiva frequentazione col mistero del male l’origine del proprio potere e del proprio sapere. Possedere doti telepatiche (o almeno credere di possederle) come la moglie del giudice Calò, conferisce all’individuo una sensazione di superiorità, derivante dalla confidenza con quello che tutti gli altri non capiscono, disapprovano, e tendono ad allontanare da sé. La conoscenza e il raziocinio possono essere messi al servizio di attività costruttive o perlomeno creative, come scrivere romanzi, imparare le lingue, realizzare schemi di parole crociate con le tessere dello Scarabeo. Queste sono presentate, nel film, come futili passatempi da salotto borghese, eppure fanno da robusto contraltare alla figura del giudice, la cui vita sembra incentrata sulla insaziabile voglia di scavare nelle cose e nelle persone, alla ricerca di un appiglio su cui edificare un impianto accusatorio. Il sospetto sollecita grandemente la fantasia, che si trova morbosamente allettata dalla prospettiva di riempire, a modo suo, lo spazio vuoto e buio lasciato dal segreto. A stimolarla basta poco, anche solo la fuoriuscita di un filo di fumo bianco da un comignolo, che magari non è del tutto certo si sia effettivamente verificata. Da uno spunto così flebile ed inconsistente possono scaturire idee di portata colossale, che parlano di atroci misfatti e terribili congiure, come il complotto ordito per sottoporre un bambino malato dalla nascita ad una procedura di eutanasia. Le persone, con la loro dignità e i loro sentimenti, non entrano nel calcolo, che si fonda unicamente su una frettolosa, spesso arbitraria, analisi della situazione. Il dolore di un padre e di una madre non hanno alcun peso in questo esercizio di condanna preventiva che costruisce le proprie convinzioni sul terreno molle e accidentato delle supposizioni senza fondamento. Si uccide prima pensando, poi parlando, in un mondo in cui la comunicazione, per quanto possa essere avventata, è l’origine di ogni giudizio. Il si dice è un contagiosissimo germe che provoca la formazione dei preconcetti e che spesso si diffonde per vie ignote ed invisibili, come un pensiero trasmesso per telepatia. I mezzi di quest’ultima sono estremamente raffinati ed i suoi effetti potenzialmente micidiali, e sono in grado, da soli, di fare una storia. Lelio Luttazzi, vittima di un errore giudiziario nel 1970, con questo film descrive, senza riserve, i vagabondaggi della ragione che cerca le soluzioni in maniera autonoma, obbedendo unicamente alle leggi della deduzione, senza verificare, però, la fondatezza delle premesse. Riflettere senza alcun riscontro nei fatti, decidere senza sentire l’obbligo di renderne conto al mondo è il vizio di una giustizia che è troppo impegnata nella ricerca del colpevole per potersi soffermare sui dettagli. D’altronde anch’essa ha un disperato bisogno dei propri romanzi e dei propri eroi, e ciò fa spesso sì che la coerenza passi in secondo piano. È infatti troppo bello illudersi di vedere dal vivo ciò che, invece, alberga solo nel nostro cervello; ed è troppo comodo convincersi che ciò che ci ronza per la testa è un’esatta intuizione in attesa di inoppugnabili conferme. L’illazione rinchiude nelle parentesi dell’assurdo e dell’incubo i fatti inesistenti che ognuno di noi – ma soprattutto chi giudica per mestiere – disegna mentalmente con grande passione e precisione, come se fossero le chiavi per accedere a tutte le risposte mancanti.
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