Regia di Selim Gunes vedi scheda film
L’inverno è il tempo dell’attesa. Hasan aspetta il padre che è in prigione, e non si sa quando ritornerà. Recep, l’addetto all’autostazione, aspetta un pulmino che arriva regolarmente, tutti i giorni, negli orari prestabiliti. Ed aspetta una lettera di risposta dalla donna amata, che forse non riceverà mai. La realtà è congelata, sospesa, incapsulata in tante solitudini, che si parlano da lontano. Questo film, ambientato tra le montagne della Turchia, è una fredda elegia, sobriamente intinta nello sperimentalismo. Selim Gunes vi ritrae un’umanità dispersa, che si cerca disperatamente, in un’alternanza di inerzia e frenesia; intanto lo sguardo vaga senza meta, indugiando a tratti sui dettagli degli oggetti, a tratti sugli spazi aperti e vuoti. I personaggi hanno contatti sporadici e superficiali, i dialoghi sono brevi e rari, eppure ognuno è parte di un tutto, in cui ciascun soggetto è idealmente collegato a tutti gli altri. È come, se, mentalmente, gli individui si passassero la voce della sofferenza e dell’incertezza, attraverso quei luoghi in cui vivere significa arrancare e pregare per un futuro migliore. In quel paesaggio deserto il suono del dolore non si rifrange, e continua a viaggiare sempre uguale, investendo ogni essere con la stessa ancestrale onda di angoscia. L’ululato dei lupi le fa eco, testimoniandone la sinistra onnipresenza: una minaccia cupa e primitiva, proveniente dalla notte dei tempi, per ricordarci la voracità del destino, che, a furia di umiliazioni, ci consuma il corpo, l’anima e le sostanze. Recep è un innamorato deluso, Hasan un bambino diventato improvvisamente povero e costretto a lavorare: le loro esistenze sfiorano, per caso, quella di un giovane ingegnere trasferito in una località sperduta, e quella di un vecchio contadino che si sente inutile. Il filo invisibile della frustrazione lega tutti loro e li rende simili, benché estranei, uniti in quell’affannosa corsa attraverso la neve che sembra non avere mai fine. Ognuno precede isolato e per suo conto, in quel cammino del quale non si intravvede il traguardo. Ogni sforzo è vano, perché è assorbito dall’indifferenza del nulla: il silenzio non sfocia nella contemplazione, ma solo nell’illusione, nel ricordo, nella follia, perché il presente, semplicemente, non offre appigli al pensiero. I tempi morti sono riempiti da giochi ossessivi ed insensati, mentre la noia è popolata di fantasmi, a cominciare da quella brocca di metallo che Hasan usa per vendere l’arkan e alla quale si rivolge chiamandola per nome, come se fosse un suo amico in carne e ossa. Ma il suo cuore rimane infelice, perché la fantasia è solo un fragile palliativo, ed il sogno, privato della sua funzione consolatrice, è solo un debole pretesto di fuga. In Kar Beyaz la poesia non è che un riflesso passeggero, un lampo che si posa furtivo su una realtà immobile ed apparentemente sterile. Tutti sperano, ma nessuno osa porsi domande, perché, in quella desolazione, il dubbio è come una voragine che si spalanca sotto i piedi. È naturale pensare che il seme dorma sotto la neve, ma è meglio non chiedersi se sia ancora vitale.
Il film, liberamente ispirato al racconto Ayran dello scrittore turco Sabahattin Ali, è l’esordio cinematografico di Selim Gunes, classe 1961, di professione fotografo.
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