Regia di Lech Majewski vedi scheda film
“I colori della passione” aggiorna e adegua alla tecnologia digitale quella branca del cinema d’autore che intende riflettere sul complesso rapporto esistente fra Arte e Storia, ossia fra Estetica e Ideologia. Non è un’idea nuova quella di ispirarsi al patrimonio plurisecolare della arti figurative per dare vita (letteralmente) al movimento filmico. Chi in chiave melodrammatica (il Visconti di “Senso” ispirato alle opere del romanticismo italiano), chi con risvolti spiritualisti (il “Tarkovskij” di Solaris, con una sequenza visionaria ispirata proprio a Bruegel), chi appellandosi alla psicanalisi (l’Hitchcock di “Vertigo”), chi prediligendo invece un approccio razionalista (“Barry Lindon” di Kubrick), svariati cineasti hanno trovato nel supporto pittorico una insostituibile fonte di ispirazione per le proprie rispettive poetiche. Il film di Majewski non è solo splendido a livello visivo; la sua qualità non risiede unicamente nel suo valore di “tableau vivant” né nella squisita attendibilità nella riproduzione di ambienti, volti, corpi, usi e costumi fiamminghi dell’epoca. Men che meno, si può liquidare il film come lezioso esercizio di stile. Si tratta invece di un’opera stratificata, complessa, leggibile a vari livelli. La dialettica fra immagine statica (pittura) e dinamica (cinema) è il motore che innesca una riflessione a catena che coinvolge diversi ordini tematici. Il nocciolo del discorso risiede in un mesto e soffocato urlo contro l’assurda ingiustizia degli oppressori, contro la violenza e la vigliaccheria del Potere, contro l’ipocrisia e l’opportunismo della masse stolte e plagiate, contro una Storia meschina che tende prima ad uccidere poi a gettare nell’oblio tutte le voci dissidenti, e per questo sacre e rivoluzionarie al contempo, poiché capaci di illuminare l’oscurità delle coscienze e modificare per sempre “usi e costumi” corrotti. Lo strazio di una Madre (un’intensa Charlotte Rampling) che, incredula, si chiede come sia possibile tutto questo, che suo figlio sia stato tradito da chi prima lo osannava, trova una eco nella composizione delle linee di forza del quadro di Bruegel: il Cristo delle Fiandre, con la sua croce, si trova al centro del dipinto, ma quasi non ce ne si accorge. E’ come soffocato, nascosto, censurato: la gente guarda altrove, il popolino è numeroso e affaccendato; l’imponente figura della rocca su cui poggia il mulino domina la scena; e da lontano, la caratteristica folla brugheliana assomiglia più ad uno sciame d’api. Lo ribadisce più volte, nel film, lo stesso Bruegel (un convincente Rutger Hauer), colto dal regista come se fosse quasi spaurito e spiazzato nella tridimensionalità dello spazio-cinema, mentre “pensa” al suo quadro, “guardando” la realtà oltre la mdp: “pensiero” e “sguardo”, dunque, che si condizionano a vicenda. E siccome il pensiero non ha limiti e lo sguardo (specie quello dell’artista pittore/regista, che fa del “guardare” la base per la sua opera) ne proietta i concetti, ecco che Bruegel possiede una sorta di “potere” che gli permette di fare giustizia dei mali della Storia, almeno per un breve momento e solo per chi ha la sensibilità di fermarsi a guardare: con un cenno, egli impone al mugnaio di fermare il Tempo (simbolicamente le pale del mulino), risparmiando il Cristo dal flusso indistinto della folla, dall’indifferenza dello sguardo, dall’oblio della Storia. Ecco che da una prospettiva puramente estetica, da quello che potrebbe sembrare solo un gioco inter-testuale, scaturisce una accorata e profonda ricognizione sull’importanza dell’Arte e della cultura: ma non di quella inerte, passivamente subita, distrattamente adocchiata in un museo o fraintesa dalle volgari chiacchiere; ma l’Arte compresa, discussa, analizzata. Solo con la consapevolezza del mezzo artistico (e dello sguardo e del pensiero ad esso sottesi), si possono a loro volta comprendere ed illuminare i percorsi più bui e funesti della Storia umana.
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