Regia di Lech Majewski vedi scheda film
Uno sguardo pacifico ed attento percorre gli ambienti e si posa sulle figure umane in azione: in questo modo Lech Majewski immagina di attraversare il dipinto L’andata al Calvario (1564) del pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio. La tecnica è visiva è la stessa dell’artista: una coralità panoramica, dove l’individuo è solo un singolo membro di una moltitudine, per di più rimpicciolito dalla prospettiva, eppure è il protagonista assoluto; e dove lo stesso, pur essendo il personaggio principale, non ruba comunque la scena agli arredi, agli oggetti, agli elementi del paesaggio. Vicende personali e contesto storico si fondono in un quadro unitario, in cui il dettaglio è l’evento dell’esistenza, ma l’insieme è la situazione generale che lo origina e lo spiega. Alla metà del Cinquecento le Fiandre sono sotto il dominio della cattolicissima Spagna, e sono quindi territorio di caccia per le forze dell’Inquisizione, che cattura i protestanti e li uccide secondo atroci pratiche di espiazione. Nel medesimo modo in cui, in un tempo remoto che non è mai trascorso, fu mandato a morte il Nazzareno. La croce portata da Gesù è collocata al centro del dipinto, eppure rimane inosservata, soffocata da una folla che interpreta l’inarrestabile turbinio terreno, perennemente insensibile alla manifestazione della divinità. Dio è il Grande Mugnaio, il padrone del mulino che, sullo sfondo, sovrasta quel caos dall’alto di un picco roccioso. Intanto tutti mangiano il suo pane, che sostiene la vita determinandone il destino. Bruegel, nella sua opera, inquadra un giorno di ordinario dolore, in cui i guardiani della fede, a cavallo, con le loro tuniche rosseggianti, accompagnano il condannato verso il luogo del supplizio; tutto intorno prosegue il macinio dell’universo, con i giochi dei ragazzi, i riti delle scampagnate, gli spettacoli di musicisti e saltimbanchi, che segnano la banalità di ciò che cade nell’insulso interregno tra la nascita e la morte, tra il cerchio chiaro della città cinta da mura e il cerchio nero della gente che, in cima al Golgota, si accalca intorno al punto in cui la sentenza verrà eseguita. Sulla sinistra si erge un albero frondoso, sulla destra una ruota montata sopra un palo: due simboli antitetici - la promessa della vita contrapposta all’emblema della persecuzione e della tortura - delimitano lo spazio entro cui l’uomo esprime la sua anima irrequieta, ancorata al suolo, ma inesorabilmente tormentata dalle questioni provenienti dal cielo. La corporeità è materia pesante e plastica, che si muove con un dinamismo goffo e incerto, mentre la sua superficie trasforma la luce del giorno in una rifrazione opaca, che assorbe ogni splendore. L’atmosfera è tiepida e muta, anche nei momenti apparentemente giocosi, perché quell’allegria senza musica né risate è solo uno scherzo fugace, una temporanea deviazione dall’incombente tragedia. Nel mondo manca il sole, e la vita è scandita dal ritmo innaturale di un colossale ingranaggio, in cui si è costretti ad essere burattini meccanici, oppure vittime, stritolate senza pietà. Questo film riprende, da un capolavoro dell’arte, il volto freddo dell’inferno, in cui il male è un rito silente, ripetuto all’infinito, in mezzo a quella diabolica indifferenza che induce a perseverare nell’errore.
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