Regia di Alejandro Bellame Palacios vedi scheda film
Il rumore delle pietre è strano da ascoltare. Si può provare ad accostare l’orecchio ad un pezzo di marmo, e credere di sentire il bisbiglio della scultura che vi è imprigionata. Oppure, forse, basta chiudere gli occhi, e tornare indietro col ricordo ad un giorno terribile, quando il sottosuolo è andato in tumulto, e tutto ha cominciato a vibrare, spezzarsi, cadere. Un’altra volta è stata l’acqua, a far rotolare giù la terra. Il piccolo Santiago Robles è figlio di quel mistero, che a volte fa sognare in silenzio, altre volte fa piangere di disperazione. Le rocce sono le testimoni mute, eppure, in fondo, vive, della sua esistenza innocente, fragile, incline alla bontà e alla semplicità, eppure inquieta, e continuamente esposta al dolore. La sua giovane anima vorrebbe sospingere via i pensieri brutti, e concentrarsi soltanto sulle cose curiose, sul gusto della scoperta, come quando, insieme al suo amico Yeyson, passa i pomeriggi al cimitero, appoggiato ai monumenti funerari, a chiacchierare e a raccogliere sassi per la ricerca di scienze assegnata come compito dalla maestra. La durezza non dovrebbe intaccare il suo cuore di bambino, bensì limitarsi a fare da cornice impassibile al suo mondo ancora popolato di fantasie. Invece la realtà non riesce proprio a starsene in disparte. In quel quartiere popolare di Caracas, ci sono forze che non smettono mai di tirare, dentro le case, tra i muri, in mezzo alle strade, tutti i peggiori guai in circolazione, dalla miseria alla delinquenza. Santiago è figlio di un padre criminale che non ha mai conosciuto, benché sia convinto che l’uomo sia da anni in viaggio, in cerca di fortuna. William, suo fratello maggiore, è già coinvolto nei traffici illegali e nelle guerre tra bande. La sua sorellina è morta, molti anni prima, durante un’alluvione. Delia Robles fa quello che può: costretta ad abitare in una baracca, a mantenere da sola due ragazzi e la madre invalida, passa le sue giornate a sviscerare galline in una fabbrica alimentare. Lavora alla catena di montaggio, sta immobile e con lo sguardo fisso mentre l’orrore le sfila davanti, e non può fare nulla per farlo cessare; anzi, lei stessa contribuisce a perpetuarlo. Anche di fronte al male dell’esistenza, Delia è del tutto inerme. Si sente impotente, incapace di salvare il sangue del suo sangue dalle incursioni nefaste della malasorte, del malaffare, del malessere del corpo e dello spirito. A lei spetta il mortificante ruolo di colei che soffre e fatica solo per essere ingannata, defraudata, offesa nei valori e nelle speranze a cui maggiormente tiene. Il suono che la circonda è l’eco sorda di quelle pietre che non vogliono smettere di agitarsi, di portare disordine e distruzione. Sono nate per fornire una base solida alla’umanità, un terreno su cui camminare sicuri ed edificare la propria dimora: ma da quelle parti sono soltanto una continua fonte di rovina. Là sotto non c’è pace, e chi sta sopra ha la coscienza attraversata da scosse sismiche, non può fare a meno di ballare, di spostarsi alla cieca nello strenuo tentativo di mantenersi in equilibrio, di non precipitare. L’instabilità è un fatto meccanico e viscerale, radicato in quei luoghi in cui è normale esserci oggi e domani sparire, per salvare la pelle, per correre a rubare, per assaporare il brivido del pericolo. Nemmeno Delia si può sottrarre a quel trambusto endemico, che impedisce a chiunque di restare fermo dov’è. Anche lei dovrà muoversi, partire, cambiare, non prima di aver accettato quella generale frenesia come un connotato irrinunciabile della lotta per la sopravvivenza, laddove questa è combattuta con mezzi poveri ed inadeguati.
El rumor de las piedras ha concorso, come rappresentante del Venezuela, al premio Oscar 2012 per il miglior film straniero.
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