Regia di Hun Jang vedi scheda film
Il candidato coreano al premio Oscar 2012 per il miglior film straniero è l’omaggio alla memoria di un nonsenso. Una guerra fratricida, combattuta lungo una linea di confine dettata solo dalle strategie belliche, spostata mille volte di pochi metri, a costo di innumerevoli vite umane. Aerok è il nome di una collina maledetta. Situata lungo quella frontiera, e passata continuamente di mano, tanto da far venire in mente una specie di gioco, in cui gli avversari si alternano nella casella di un tabellone. Sotto quella piccola altura, coperta di sassi e sterpaglie bruciate, si trova una piccola grotta, nella quale i militari hanno sepolto una cassetta. Doveva inizialmente servire da nascondiglio per munizioni e provviste, poi, quando il nemico ne ha scoperto l’esistenza, è diventata un luogo di scambio, usato per far passare, da una parte all’altra del fronte, piccoli regali e messaggi personali. I soldati delle due Coree si parlano in quel modo, facendo da tramite tra le rispettive famiglie. Ricompensano il favore di una lettera consegnata alla madre con una bottiglia di liquore. Un paio di occhiali è il ringraziamento per il testo di una canzone. L’umanità, in quel recesso sotterraneo, si è ricavata un rifugio, dove, per un attimo, si può chiacchierare del più e del meno, con una sigaretta ed una tazza di alluminio che odora di ebbrezza. Questo è il cuore del racconto, ma il suo battito è quasi impercettibile. Tutto intorno si estende il campo di battaglia, con l’assordante fragore delle armi, le quali rispondono solo a ciechi principi impartiti dall’altro, che impongono ad ognuno dei due eserciti di non smettere mai di avanzare, per riprendersi quei lembi di terra che gli sono stati tolti. Dietro questo diktat assoluto non c’è ragione, ma solo una artificiosa necessità tattica, per la quale la conquista è un obiettivo in sé e per sé, che non ha bisogno di giustificazioni. La storia va in stallo, lungo quella linea di demarcazione, in un infinito tira e molla che si traduce in un massacro senza via d’uscita. Il discorso, tra i protagonisti di questa storia – ufficiali e soldati sudcoreani della cosiddetta Alligator Company – va continuamente avanti e indietro, facendo la spola tra gli opposti estremi di un dilemma: è giusto o sbagliato uccidere per non morire, rinunciare all’azione se la situazione è troppo rischiosa, cessare il fuoco prima che l’armistizio sia ufficialmente entrato in vigore. La soluzione arriva sempre, categorica e violenta, da quella entità astratta e diabolica che è la guerra, e che, per chi si trova in trincea, è il vero nemico. Il capitano Shin ed i suoi uomini pensano e parlano, tra di loro, di una vita molto diversa e lontana, eppure possibile, in cui si può scherzare come ragazzi, e magari anche sognare progetti importanti. A spezzare l’incanto interviene però sempre l’azione, che interrompe il libero girovagare delle idee, e spesso anche le stesse esistenze. Convivere con l’assurdità, mantenendosi lucidi, è la sfida più difficile, seconda, in importanza, soltanto a quella di sopravvivere ai proiettili e alle bombe. Qualcuno, reduce dalla catastrofica ritirata di Pohang, è completamente impazzito, qualcun altro è divenuto un tossicodipendente. Altri si illudono che valga ancora la pena di salvare l’onore cercando di diventare eroi, o anche semplicemente compiendo il proprio dovere. Ognuno ha il proprio modo di resistere a quell’inferno in cui tutto affonda, a cominciare dal valore della pietà umana. Il regista Hun Jang mette in scena, con toni realisticamente tiepidi, lo sforzo di continuare a coltivare le cose della vita anche quando da ogni direzione si sente provenire l’ordine a sacrificarla. Allora la volontà di vincere cede il posto al desiderio che si giunga ad una fine, perché la sospensione della logica, unita al costante pericolo di morte, comporta un’attesa insostenibile. The Front Line è un film che, con apprezzabile limpidità, mette a nudo, sotto la divisa militare, il lato debole, incerto e reticente dell’individuo costretto a combattere per una causa non sua, e a farsi portatore (e vittima) della sua crudele retorica. Un film umanamente onesto, anche se politicamente non neutrale, forse un po' acerbo, eppure illuminante, sull’equivoco che fa immaginare grandi conflitti, ideali e manovre dietro la miseria di una lotta di uomini qualunque, demotivati, sfiniti ed affamati di normalità.
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