Regia di Maria Peters vedi scheda film
La regista Maria Peters fa quello che può, ma si affanna invano. Perché questo film lo abbiamo già visto. Tante, troppe volte. Ed altri, prima di lei, lo hanno girato molto meglio. Il solito pretesto – vagamente demagogico - della storia vera non aggiunge nulla a questo didascalico rimescolamento di situazioni stereotipate: un ordinario girotondo intorno al mondo del pregiudizio, che spazia dal colonialismo al nazismo, passando per il puritanesimo e l’integralismo religioso. Pietra dello scandalo, per i benpensanti borghesi olandesi come per i perfidi aguzzini tedeschi, è la coppia di fatto formata, negli anni trenta, da Rika, sposata e madre di tre figli, e Waldemar, uno studente di colore, originario del Suriname. Lei fugge di casa dopo aver colto il marito in flagrante adulterio con la cameriera, e, una volta sistematasi in una nuova casa, si innamora del giovane occupante della stanza che, per motivi economici, è costretta ad affittare. Dalla loro relazione nascerà presto un figlio, dalla pelle color caffelatte, che sarà chiamato Waldy. Quella famiglia fuori dai canoni, i cui componenti sono malvisti singolarmente, e soprattutto nel loro complesso, si ritroverà poi, dopo lo scoppio della guerra, direttamente coinvolta nelle persecuzioni operate dalle SS. Rika e Waldemar saranno arrestati, sottoposti a tortura, deportati nei campi di concentramento. Il racconto è ispirato alla realtà, ma la sua evoluzione è, purtroppo, tragicamente scontata. Appoggiarsi ad eventi arcinoti, senza aggiungere nulla, nemmeno un pizzico di sapore romanzesco, fa naufragare tristemente la trasposizione cinematografica di una vicenda di vita vissuta che, date le premesse inusuali e la densità di avvenimenti drammatici, aveva certamente qualcosa di interessante da dire. Per di più, qualche elemento caricaturale di troppo nella rappresentazione dei “cattivi” fa ricadere il racconto esattamente in quei cliché semplificativi che esso, sulla base di una potente testimonianza storica ed umana, si prefiggeva di stigmatizzare. Al posto della riflessione morale e dell’analisi psicologica troviamo così una superficiale antologia, in bianco e nero, del male derivante dalle discriminazioni e dall’intolleranza: si direbbe una sorta di fumetto stilizzato da somministrare come prontuario contro l’odio, sintetico e rigidamente organizzato in categorie, che non offre alcuno spunto per sviluppare una nuova idea o anche solo provare un’emozione. Questo Sonny Boy, il cui titolo inutilmente richiama l’omonima canzone strappalacrime del 1928, ha il tono di un monito scolastico spalmato di un timido accento sensazionalistico, a metà strada tra la fiction televisiva e la cronaca da rotocalco. Forse l’effetto è voluto, come si potrebbe dedurre dall’estetica di certe scene, visibilmente ispirata alla grafica delle illustrazioni tipiche della stampa popolare di un tempo. Sfortunatamente, se il tentativo di imitazione c’è stato, ha fallito l’obiettivo della citazione per centrare invece quello di un manierismo decisamente tiepido, oltre che privo di qualsiasi maestria tecnica. I Paesi Bassi hanno mandato questo film a rappresentarli nella corsa al premio Oscar 2012 per il miglior film straniero. Una scelta davvero sorprendente per la nazione europea che, insieme al Belgio, si è recentemente affermata come la portabandiera dell’innovazione, in senso provocatorio ed anche politicamente scorretto, del linguaggio della settima arte.
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