Regia di Juanita Wilson vedi scheda film
Non basta l’alibi del “cinema necessario”. Il candidato irlandese al premio Oscar 2012 per il migliore film straniero ritorna sul soggetto de Il segreto di Esma, entrando nel vivo dell’orrore in cui quel “segreto” affonda le radici. La pulizia etnica operata dai serbi in Bosnia. Villaggi incendiati, tutti gli abitanti maschi uccisi, le donne e le bambine deportate in campi di lavoro, trattate come bestie, e sottoposte a soprusi di ogni genere. Tale è anche il destino di Samira, una ragazza di Sarajevo, appena trasferitasi in una piccola località di montagna per fare da supplente nella scuola elementare. Verrà subito catturata, imbarcata su un autobus, imprigionata, violentata dai suoi carcerieri, e, una volta tornata in libertà, partorirà un figlio. Tutto prevedibile, con un finale comunque anticipato nella sequenza d’apertura. Di certi argomenti occorre certamente parlare. Come si dice, per non dimenticare. Ma affinché l’operazione vada a buon fine, ed il suo tenore sia all’altezza della serietà del tema, occorrono idee nuove e valide, che supportino il discorso, e che, forti del loro contributo originale e dei loro potenziali sviluppi, lo facciano sembrare ancora aperto, irrisolto, meritevole di ulteriori approfondimenti. Invece questo film è una scatola chiusa, il cui contenuto è già noto, e, per di più. ci viene recapitato col sigillo dei casi da archiviare col cuore sereno. È un dolore consegnato alla storia, da cui si può sperare di rinascere, semplicemente cancellandone la memoria. Facendo finta che quegli eventi non siano mai accaduti, che quei bambini siano stati concepiti in modo normale. Samira è giovane, ha un viso avvenente ed un corpo aggraziato, e, soprattutto, uno sguardo che incanta, anche quando in esso dovrebbero riflettersi l’angoscia, il terrore, il disgusto. La sua immagine, che attraversa quello scempio di corpi ed anime restandone praticamente indenne, basta a sdrammatizzare i fatti, ad accendere, senza troppi problemi, la fiamma della speranza. Intorno a lei, le carni vengono straziate, però lei è diventata l’amante del comandante del campo. È vestita da sera, con la pochette ed il rossetto, mentre, scortata da una guardia armata, si reca al suo appuntamento galante, camminando in mezzo a cumuli di cadaveri dati alle fiamme. Nella casa del suo uomo, potrà mangiare in abbondanza, lavarsi come si deve, dormire in un letto vero. Intraprende quella relazione suo malgrado, solo perché costretta con la forza. Lo fa per sopravvivere, e una mattina, di nascosto, raccoglie gli avanzi di cucina per portarli alle sue compagne. Però queste circostanze non sembrano togliere nulla ad un una condizione che appare eccezionalmente privilegiata, oltre che accettata senza la benché minima resistenza, e senza l’ombra di un dilemma. Samira è sempre elegante e composta, anche nelle situazioni più estreme: può essere un piacere ammirare i suoi occhi di fanciulla eternamente spalancati su un mondo che non capisce, con un’espressione di invariabile stupore che è quasi un’estasi mistica. Si scorge perfino un alone di santità in quel suo sacrificio poco credibile, e, soprattutto, nell’epilogo che odora di perdono divino, di riconciliazione, di redenzione dal peccato originale, perché l’amore vince su tutto. Denuncia ed ottimismo non vanno d’accordo, poiché realismo e buonismo sono poli antitetici: il primo si impegna a scavare nei luoghi da cui il secondo si mantiene alla larga. Usando la pala, si smuove la terra e si solleva la polvere. È logico che tutto si sporchi, di fango e di sudore. Ciò che resta pulito appartiene alle favole. As If Am Not There è una rassicurante storia di salvezza, di innocenza che rimane incontaminata nonostante l’esperienza dei crimini contro l’umanità. Sulla vita di Samira il sole non tramonta mai, ma resta solo temporaneamente velato dalle nuvole, per poi tornare più splendente di prima. Non sappiamo bene cosa sia l’assenza a cui si riferisce il titolo: non è sicuramente da intendersi come invisibilità – la protagonista è la vera icona della regista, e domina quasi ogni inquadratura – né può essere l’alienazione in cui ci si rifugia dopo una trauma, visto che Samira è ben presente a se stessa, e conscia delle proprie azioni, in ogni momento. Solo che, ad un certo punto, si trucca le labbra per potersi sentire se stessa. Uno sbuffo di pathos che, en passant, si posa su una pellicola affetta da un inguaribile estetismo romantico, in cui, in maniera ingenua, ed anche pretestuosa, la femminilità è dipinta come una bellezza leggera, capace, con la sola luce del suo fascino, di illuminare anche gli scenari più squallidi.
Tecnicamente notevole in alcuni momenti, ma nel complesso poco coinvolgente.
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