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Aballay, el hombre sin miedo

Regia di Fernando Spiner vedi scheda film

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La recensione su Aballay, el hombre sin miedo

di OGM
6 stelle

Un western di ispirazione mistica. Il cui protagonista è un feroce assassino che diventa un santo. Ma non è la solita storia di redenzione. Aballay è un anacoreta, o, per meglio dire uno stilita. Come lo fu Simone nel deserto. La sua colonna è un cavallo, che lo tiene perennemente sollevato dal suolo su cui ha commesso un peccato mortale. Vaga attraverso i deserti e le praterie dell’Argentina, senza smontare mai di sella. La sua leggenda si è rapidamente diffusa presso la popolazione, che lo ha battezzato El pobre e gli attribuisce virtù soprannaturali, prima fra tutte quella di guarire i moribondi. Ciondoli, recanti impressa la sua sagoma, pendono dai colli dei devoti come crocifissi. Tuttavia la sua storia è intinta nel sangue, che continua ad essere versato a fiumi dai suoi ex compagni di scorrerie, a cominciare da quello che si fa chiamare El muerto: un ricco proprietario terriero, che esercita un potere tirannico e cruento sulla gente del posto. E non sa che qualcuno sta cercando lui e Aballay, per vendicare un omicidio compiuto tanti anni prima. Il film di Fernando Spiner costruisce, intorno al personaggio creato dallo scrittore Antonio Di Benedetto, un ambiente arido e senza morale, in cui la violenza non conosce confini. La splendida essenzialità delle immagini ne rispecchia l’asprezza  selvaggia, nella quale l’energia vitale è un istinto primitivo, disperatamente aggrappato ad una terra polverosa, a cui è difficile strappare qualsivoglia sostanza. Tutto brilla di una luminosità metallica e tagliente,  sgargiante come l’orrore perpetrato alla luce del sole.  È l’estetica della legge del taglione, sapientemente ripulita di ogni scoria torbida, perché lavata in un bagno di purissima perfidia. Una gemma di cinismo con riferimenti religiosi altrettanto affilati, distillati nell’assoluto, lucidati nell’estasi del totale distacco dal mondo.  Il progetto artistico è perseguito con coerenza e scrupolo, fino a prosciugare l’anima del racconto. La perfezione formale si trasforma istantaneamente in un contorno vuoto, come l’alone lasciato da una poesia sfiorita, nel momento in cui il film viene posto a confronto con il racconto da cui è stato tratto. Occorre davvero non averlo letto per poter apprezzare, senza riserve, la versione cinematografica realizzata da Fernando Spiner. La nitidezza della sua rielaborazione perde ogni fascino non appena si scopre chi sia il vero Aballay descritto da Antonio Di Benedetto: un cavaliere errante, circondato da un’umanità semplice, né buona né cattiva, e come lui, persa nell’anonima vastità di un territorio in cui si può solo stare fermi in attesa, oppure mettersi in cammino senza meta, alla ricerca di un appoggio per andare avanti, uno spunto per continuare a sperare. Il suo percorso non è la fuga di un bandito braccato: è il pellegrinaggio di un individuo che si autocondanna ad una difficile condizione di diverso, a titolo di espiazione dal male commesso. Le tappe del suo viaggio sono segnate da incontri con altri infelici, con cui condivide la fatica del vivere. Per lui, in particolare, l’esistenza è una sfida oltre il limite dell’immaginabile,  che prevede di conciliare le necessità fisiologiche sue e del proprio cavallo con l’impegno a non infrangere il voto di non mettere mai piede a terra. Le sue peripezie, in parte decisamente goffe, ma talvolta striate di genialità, formano il corpo narrativo dell’opera di Antonio Di Benedetto, che le descrive con un realismo asciutto e conciso, però gustosamente venato di lirismo ed ironia.   Il film di Fernando Spiner, invece, prescinde totalmente da questo aspetto – eliminando, così, l’unico elemento autenticamente avventuroso -  per sostituirlo con un’artificiosa magia, che salvaguarda il protagonista da ogni preoccupazione di carattere pratico. Una non meglio definita aura mitologica, unita ad un esoterismo inventato ad hoc che non trova riscontri nella tradizione storica, fa passare in secondo piano anche la profonda spiritualità che riecheggia nel testo originale, e che il film riduce ad un’astrazione intellettuale distante dagli affanni umani, perché relegata nella remota dimensione del mistero. Aballay non è, come recita il titolo del film, un uomo senza paura: è solo un individuo che, animato dalla fede e dal senso di colpa, ha effettuato una scelta radicale: una scelta forse più assurda che eroica, e quindi a misura di quel povero diavolo che è sempre stato, e tale resterà, anche nell’ora della morte.

 

Questo film è stato il candidato argentino al premio Oscar 2012 per il miglior film straniero.

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