Regia di Kaneto Shindo vedi scheda film
Eccolo, finalmente. È l’ultimo film di Kaneto Shindo. Prima di lasciarsi per sempre, lo scorso maggio, all’età di cento anni, il grande maestro giapponese ha voluto regalarci in extremis uno sguardo limpido e severo sul dolore. La storia di una cartolina, inviata nel 1944, in piena guerra, al marinaio Sadazo Morikawa dalla moglie Tomoko, è il filo conduttore di una storia che segue docilmente il crudele disegno del destino, mentre nelle anime dei suoi protagonisti monta la voglia di ribellarsi alla malasorte. Sadazo morirà in mare, a bordo della nave che lo stava trasportando verso il fronte filippino. Tomoko, rimasta vedova, sposerà il suo fratello minore Sampei, che verrà chiamato a difendere Okinawa, ed a sua volta perderà la vita. Le tragedie continueranno a ripetersi, in quella casa maledetta, dove la morte è andata ad abitare stabilmente, unendosi alla miseria, che lì dentro è nata e non ne è mai uscita. Tomoko è sempre lì, con il suo kimono azzurro a fiori bianchi, inginocchiata sul pavimento nudo, accanto al focolaio, composta in un atteggiamento eternamente ossequioso, anche quando non ha nulla da offrire alla persona che le siede di fronte. È l’incarnazione della dignità che non molla, persino quando la vita sembra troppo dura da sopportare, pesante come quei secchi d’acqua che ogni giorno si carica sulle spalle, dopo averli riempiti sulla riva del fiume. Resistere e tacere, chiudendosi al mondo, è una follia forse ancor di più grande di quella di chi si dà alla disperazione. È la negazione della possibilità di cambiare, che sbatte la porta in faccia al domani. Sadazo era impegnato come pulitore in un tempio buddhista requisito dalle forze armate, prima che un sorteggio lo assegnasse ad una missione ben più complessa e pericolosa. Qualcun altro, come il suo commilitone Keita Matsuyama, è stato molto più fortunato: il caso, per lui, ha deciso più favorevolmente, destinandolo ad un nuovo servizio di pulizia, nei locali di un teatro. Il percorso dell’esistenza umana è determinato da una lotteria, che si accanisce contro gli uni, mentre è iniquamente magnanima con gli altri. Non è possibile opporsi a questa infinita ingiustizia. Tomoko ne è profondamente convinta, e per questo lei, ancora giovane e bella, non abbandona la sua vecchia abitazione, benché sia ormai vuota, oltre che inequivocabilmente segnata dalle disgrazie. Il suo piccolo universo è una roccaforte della rassegnazione, nella quale nulla riesce a fare breccia, nemmeno le allettanti profferte amorose di un ricco funzionario del villaggio. L’impotenza dell’uomo è un’amara melodia che rimbomba, tra quelle pareti, come il lamento di un dramma kabuki: l’eco della sofferenza rimane imprigionata in quello spazio angusto e spoglio, come un canto che cattura il soffio della gioia, lasciando che l’aria, immobilizzata dallo sgomento, faccia da gelida cassa di risonanza alla tirannia del male. La regia di Kaneto Shindo è un distillato minimalista della tradizionale teatralità giapponese, statica, rituale, domestica, che si muove in punta di piedi, appoggiandosi al ritmo delle parole, mentre prende a pugni il nulla negli angoli appartati della scena. L’emozione è l’espressione riservata che, a tratti, sgorga dalle piccole increspature dell’armonia, facendosi fugacemente intravedere attraverso lo spioncino di una nota stonata, un gesto fuori controllo, un movimento forzato. La coreografia perde la sua nobile uniformità quando la memoria irrompe, nell’azione, non per essere retoricamente o religiosamente onorata, bensì per farsi amare, desiderare, odiare, e magari tradire. È in quel momento che il culto del ricordo, atavico e ripetitivo, perde il suo solenne contegno per sposarsi con lo spirito demoniaco e la sua beffarda passione distruttrice. È un modo per annientare il passato dando, contemporaneamente, uno schiaffo al futuro: un brutale segno di discontinuità mirante a spezzare la catena della sventura. Uscendo di strada si può incontrare un vicolo cieco, oppure una svolta inattesa. La speranza è comunque una scelta difficile, ed è una risorsa a cui si attinge, per pura scommessa, quando si è messi alle strette, e non resta nessun’altra possibilità. Questo film è un messaggio d’addio che ribadisce senza mezzi termini la complessità del vivere, rifiutandosi di consolare e semplificare, ed invitandoci, invece, ad sfoderare sempre – fino all’ultimo, e contro ogni ragionevolezza – tutto il coraggio di cui siamo capaci.
Postcard è stato il candidato giapponese al premio Oscar 2012 per il migliore film straniero.
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