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El alma de las moscas

Regia di Jonathan Cenzual Burley vedi scheda film

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La recensione su El alma de las moscas

di OGM
6 stelle

Una recitazione ruspante a supporto di un sogno un po’ matto. La fantasia singhiozza, arrancando dietro uno spirito scanzonato che scorrazza negli spazi di una campagna deserta, senza sapere dove andare. Il mondo in cui ci si perde è un teatro a cielo aperto. Lo è certamente per Miguel e Nero, due fratelli che si incontrano per la prima volta in occasione del funerale del padre Evaristo. Un uomo che ha amato troppo la sua libertà, tanto da non avere il tempo di allevarli. Ora quei due giovani, che, prima di quel momento, ignoravano l’uno l’esistenza dell’altro, sono compagni di viaggio in un itinerario che attraversa il nulla, ed è diretto verso una cerimonia funebre che forse è già finita, o magari non è mai nemmeno iniziata. Due personaggi, senza autore né soggetto, partono da zero per dirigersi verso l’ignoto. Il loro cammino inizia da un luogo fermo e abbandonato: una stazione ferroviaria sui cui binari è cresciuta l’erba, perché i treni non vi passano più da molti anni. Muoversi da lì sembra impossibile. E lo è, allo stesso modo, avviare un discorso tra due perfetti sconosciuti, che provengono da nazioni diverse, ed in comune hanno solo il cognome. Per parlare occorre arrangiarsi, inventarsi gli spunti strada facendo, mentre si cerca di procedere con i mezzi di fortuna che di volta in volta capitano a portata di mano: un passaggio in auto offerto da un estraneo o una corsa su una moto rubata. E, tra un’occasione e l’altra, tanti sono i chilometri da percorrere a piedi, sotto il sole o la luna. Tutto è così stentato e incerto che non si può essere totalmente sinceri; ci si confida soltanto mezze verità, velate dal pudore, e adombrate da desideri inappagati. L’amore di una donna, per entrambi, è una magnifica utopia: la ragazza dei girasoli che popola le visioni notturne di Nero, o la moglie di Miguel, le cui labbra odorano del profumo di baciarle. Tutto troppo bello, e magari anche un po’ stupido, per essere reale. L’immaginazione è una goffa scappatoia dal dolore, sia nella insipida reticenza di Miguel, sia nella puerile espansività di Nero: la sofferenza non è argomento da affrontare direttamente, è naturale girarci intorno, nascondendosi dietro una bugia e qualche romantica sciocchezza, come convincersi di poter dialogare col solo sguardo, oppure chiedersi se anche le mosche abbiano un’anima. Basta un po’ di ingenuità perché in mezzo alla banalità si faccia largo un filosofeggiare claunesco, magari improvvisato e ridotto all’osso. L’agrodolce sottigliezza del pensiero, sfrondata della caustica allegria della battuta, diventa una piccola nota stridente su uno sfondo vuoto: un acuto che colora il grigiore con arguzia, ma senza gusto, come una chiazza di rosso prodotta spiaccicando un’anguria. Il regista spagnolo esordiente Jonathan Cenzual Burley non è bravo a dipingere, e ne è ben cosciente; in compenso sa disegnare in maniera estremamente espressiva, con un tratto bozzettistico, malfermo ed inquieto che racchiude tutta la difficoltà di mettere a fuoco i concetti nella generale mancanza di senso. Il suicidio di Federico è un pieno successo, anche se lui ne è uscito sano e salvo. I significati si mordono la coda, e finiscono per non dire niente: le definizioni non servono, se un’albega è una verdura che sa di pianta. I foglietti di carta volano via, prima che Nero abbia avuto l’opportunità di scriverci qualcosa. Tutto sfugge o ritorna su se stesso, come il vecchio Evaristo, che ha fatto trentacinque volte il giro del pianeta. Anche questo film ha la forma di una frase incompiuta, che si contorce disperatamente prima di rassegnarsi alla propria indeterminatezza. Un’opera modesta, di poche pretese, che si arenano, malinconicamente, senza fare storie. La produzione è povera, e sa di non poter far di più: però ci mette tutto il cuore, insieme ad un’anima piccina piccina, che quasi non si vede, eppure ronza nell’aria con orgogliosa insistenza.

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