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La voce taciuta

Regia di Benito Zambrano vedi scheda film

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La recensione su La voce taciuta

di OGM
6 stelle

Probabilmente non esiste una specificità femminile nella sofferenza e nel martirio. Eppure il regista Benito Zambrano fa di tutto per convincerci del contrario. Chiede ed ottiene, dalle sue attrici principali, Inma Cesta e Maria Léon  - autentica rivelazione dell’anno – un’interpretazione intensa ed appassionata, che si tinge di tutte le sfumature dell’amore. La loro presenza basta a riempire il film di una accorata melodia dei sentimenti, in cui sulla gioia grava l’ombra della nostalgia, mentre il pianto è sempre accompagnato da una preghiera carica di speranza. Questa storia narra di una rivoluzione repressa, le cui protagoniste, perseguitate, costrette alla clandestinità,  catturate e rinchiuse, proseguono la lotta con la forza d’animo e con la potenza del cuore. Le prigioniere politiche, incarcerate e condannate a morte nei primi anni del franchismo, reprimono la rabbia per la loro sorte nefasta, per l’ingiustizia dilagante, per un sanguinoso conflitto che doveva concludersi con la pace e invece è solo servito a perpetuare, istituzionalizzandoli, il terrore e la violenza. Hortensia  Rodriguez Garcia divide una squallida cella con decine di altre detenute. Si trova in quel luogo orribile perché è la moglie di un membro della resistenza. È in attesa del processo, ed è al settimo mese di gravidanza. La scrittrice Dulce Charcón, autrice del romanzo a cui il film si ispira,   la pone al centro di una storia in cui il sacrificio femminile si compie in un quadro di remissività, di pazienza e di generosa rinuncia, all’ombra di un uomo al quale si è deciso, nonostante la sua vita difficile e pericolosa, di dedicarsi anima e corpo. A lei tocca subire le conseguenze delle scelte di lui, a causa delle quali si ritrova vedova con due figli a carico, oppure sottoposta  a tortura, oppure madre di un bambino che, per volere del regime, resterà orfano poco dopo la nascita.  Questo racconto vuole parlarci del silenzioso dolore di migliaia di innocenti che, pur non avendo mai imbracciato le armi, si ritrovano a sopportare, lontano dai fragori dei campi di battaglia e dalla retorica dei proclami ideologici, il  peso maggiore della lotta contro la dittatura. Un intento nobile, perseguito con grande sensibilità, ma invero poco originale, e un po’ troppo semplificatore, volto a celebrare una sorta di “santità laica”  che sembra diretta emanazione di una netta separazione dei ruoli sociali,  oltre che di un appiattimento della personalità femminile sulle sue tradizionali funzioni di madre premurosa e sposa fedele. Lo stesso valore della solidarietà tra donne rimane offuscato dalla sensazione che il senso dell’unità sia basato non già su un consapevole impegno a venirsi incontro, bensì, più banalmente, sul fatto di specchiarsi l’una nell’altra, e di vedersi accomunate dallo stesso destino. Emblematica di tale uniformità è la forzata simmetria tra le due  due sorelle, Hortensia e Pepita, culminante nella scena in cui esse, attraverso le sbarre, si scambiano impressioni sui rispettivi compagni, entrambi combattenti per la libertà, con gli pseudonimi di Cordobés e Chaqueta Negra. La regia di Zambrano fa infiammare la poesia dell’amore e la religiosità della devozione, ma in questo modo incenerisce il pensiero, che si nutre di contrasti e distinzioni. Com’è triste, e com’è poco romantica, quella versione muliebre del comunismo “di riflesso”, che si riduce all’atto di cantare insieme l’Internazionale o al rifiuto rituale di baciare le icone del cristianesimo. Le potenzialità recitative disponibili   avrebbero potuto fornire la sostanza ad una drammaturgia ben più articolata, fondata su un ben maggiore spessore psicologico. Zambrano ha preferito metterle al servizio di una romanza tragica. E sulla strada verso la verità, storica e umana,   si è fermato all’adorabile superficie dell’incanto. 

 

 

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