Regia di Nikita Mikhalkov vedi scheda film
Il film che, tra l’indignazione di pubblico e critica, ha battuto Faust nella corsa alle candidature russe per il premio Oscar 2012. L’ultimo capitolo della saga del generale Kotov (Nikita Mikhalkov) è l’agonia di una storia che ha ormai esaurito la sua carica epica. Un curioso incipit entomologico (di stampo nipponico?), girato in soggettiva dal punto di vista di una zanzara tigre appena uscita dallo stadio larvale, introduce una storia di trincee, eroi mancati, tradimenti e segreti di famiglia che troverà, come unico approdo, la retorica della vittoria e della riconciliazione degli affetti. Il film cerca di far risuonare la potente sinfonia della grande tradizione cinematografica sovietica, celebrando la coralità dell’ambiente rurale, la battaglia che si fa melodramma ad una sola voce, il lirico intimismo della memoria personale. Questo sforzo, però, si blocca su un virtuosismo antologico senza costrutto, che soffoca il racconto e disgrega, sul nascere, ogni possibile armonia. Quest’opera è l’esempio lampante di come non basti un po’ di tristezza a trasformare la nostalgia in musica. Il duro spettacolo di una cupa follia ed un ritorno dalla guerra offuscato dall’ombra di squallidi ricordi sono il sedimento fangoso – di per sé fertile di suggestioni – sul quale, però, questa volta, nulla riesce a germogliare. Il narcisistico stallo recitativo in cui il regista ed attore principale imprigiona il proprio personaggio è il tratto distintivo di un aspirante kolossal che interpreta la magnificenza formale come un’altezzosa forma di ricercatezza espressiva. Una singolare mistura di tono biblico e psicologismo d’avanguardia fa del film un grottescoe fumante calderone di scabrose allusioni ed artificiosi coup de théâtre, forse nel tentativo di delineare il disorientamento causato, in tutti gli strati della popolazione, dagli eventi bellici degli anni quaranta. Stalin è indicato, sullo sfondo, come il burattinaio di un caos nel quale l’amore si perde, ma poi si ritrova, e la provvida giustizia divina prevale sull’imperfetta giustizia umana. Il sangue scorre a fiumi, mentre le urla della pazzia, dell’odio e della vita che sboccia sostituiscono le lacrime di dolore. Un bambino vede la luce a bordo di un convoglio, sottoposto a bombardamento, e la sua presenza salva miracolosamente gli occupanti della sua vettura, mentre tutti gli altri resteranno uccisi. Una fortezza nemica si autodistrugge al termine di una concatenazione di eventi innescata da un piccolo ragno appeso ad un filo. Tutto scorre prodigiosamente verso la chiarificazione finale, che, ad imitazione di un celebre passo evangelico, fa scaturire meravigliose verità da quei dettagli trascurabili che sono gli scarti del mondo, come un topolino bianco che danza su un disco, una cicogna di gomma dimenticata in un cassetto, un soldato tedesco abbandonato dai compagni che lo credevamo morto. The Citadel è un compiaciuto pullulare di grandi significati che fioriscono dalle piccole cose (uno stivale, un paio di guanti, un bastone): un provocatorio gusto per il paradosso che, per sua sfortuna, ci fa pensare a quanta presunzione alberghi in ciò che, pur non luccicando, si aspetti di essere preso per oro.
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