Regia di Ben Affleck vedi scheda film
La regia dimostra che Ben Affleck cresce ed arriverà lontano: calmo e tranquillo, è così che richiama i Redford e Eastwood. Tutto funziona a meraviglia ed anche il montaggio delle scene fila liscio come ci si aspetta da un film di questo tipo. L’unica mia perplessità è solito vizio americano dell'“happy ending” .
Non tratto da una storia vera, come si suol dire, ma tratto da una storia vera e classificata (cioè secretata) dalla CIA e rimasta tale fino al ’97, quando poi l’opinione pubblica fu messa al corrente dell’operazione su disposizione di Clinton. Caratteristica più curiosa è che il “falso” film all’interno di questo film è uno script veramente esistente all’epoca dei fatti narrati, ma che è rimasto nel cassetto perché nessuno lo ha girato. Anche perché probabilmente ne sarebbe venuto fuori un b-movie di scarso livello: “Argo” una storia di fantascienza. Ben Affleck è alla sua terza regia e con più di una trentina di film come attore ormai è un personaggio affermato nel mondo hollywoodiano. Se come attore sta faticando ad essere apprezzato, come sceneggiatore ha vinto già un Oscar e come regista addirittura gli elogi non mancano. Il suo primo “Gone Baby Gone”, recitato benissimo dal fratello Casey, fu un biglietto da visita esplosivo in quanto dimostrazione immediata di talento e ritmi narrativi. Qualcuno comincia a paragonare il ragazzone californiano a grandi registi, tipo Redford o Eastwood, per il suo stile calmo e la sua cifra estetica: io direi di aspettare ancora un po’, però le premesse buone ci sono e lui ha solo 40 anni. Stavolta non ha voluto scrivere la sceneggiatura e si accolla la regia e la parte del protagonista in un film che non è proprio di azione ma drammatico. L’azione è più nel cervello che nelle scene: è nelle menti di chi pianifica ed organizza il modo per salvare sei americani scappati dall’ambasciata USA durante la rivolta khomeinista del ’79 e rifugiatisi nell’abitazione dell’ambasciatore canadese. Tony Mandez (Affleck) è un agente CIA che riesce a convincere i suoi superiori sul tipo di azione che vuole adottare per il salvataggio per cui è stato chiamato: far finta di girare un film nella capitale iraniana. Ma a partire dagli alti funzionari a finire al presidente Carter, sono tutti perplessi e dubbiosi sulla bontà del piano e delle sue implicazioni internazionali, per cui l’agente “esfliltratore” farà fatica e correrà molti rischi per portare a termine l’operazione dovendo combattere anche contro i veti dei responsabili dei piani alti. Non faccio certamente spoiler se dico che il salvataggio riesce, perché la storia è stranota a tutti e vi assicuro che non si perde interesse e coinvolgimento nel finale pur conoscendolo: dimostrazione, questa, che il film è talmente ben girato che lo spettatore rimane col fiato sospeso fino alla fine anche conoscendo il felice epilogo. Gli ultimi minuti infatti sono vera suspence come i classici film di spionaggio vecchia maniera e ci si rilassa solo quando ci si accorge che i sei addetti all’ambasciata appena salvati e l’agente Mendez decollano dall’aeroporto di Teheran e volano felici verso casa. Esfiltrazione, appunto. Che sta a significare in gergo spionistico l’allontanamento di agenti dal luogo dove operano.
Non siamo nati ieri e sappiamo benissimo che a nostra insaputa avvengono tante cose strane attorno a noi o notiamo vicende che ci paiono ordinarie e che invece hanno, diciamo, un doppio fondo. I servizi segreti di ogni nazione lavorano continuamente e ci può capitare di sentire di avvenimenti raccontati nei notiziari che sembrano cronaca nera o attualità, dietro cui si nascondono chissà quali verità. Il cinema spesso tratta di queste vicende e noi lì per lì le consideriamo pure fantasie di scrittori e sceneggiatori. Per questo “Argo” è un’opera che richiama le storie di “Spy Game” o “I Tre Giorni del condor” e così via.
La regia dimostra che Ben Affleck cresce ed arriverà lontano: calmo e tranquillo, è così che richiama i Redford e Eastwood. Tutto funziona a meraviglia, non ho notato sbavature ed anche il montaggio delle scene fila liscio come ci si aspetta da un film di questo tipo. L’unica mia perplessità, nell’ambito di una pellicola esteticamente uniforme, è scaturita dal solito vizio americano dell'“happy ending” quando il protagonista, ad operazione conclusa, torna alla casa della moglie e del figlio, da cui (cliché spionistico/poliziesco) si era allontanato perché troppo dedito al lavoro: anche qui la moglie lo vede arrivare (da quanto tempo è dietro quella finestra?), esce e lo abbraccia. La famiglia si è felicemente riunita.
Uno spettacolo a parte i comprimari, in primis i due produttori di Los Angeles. John Goodman sa riempire sempre lo schermo e non è per la sua stazza, ma per la sua enorme simpatia; altrettanto, anzi di più, ci si diverte come in un film brillante con Alan Arkin e le sue velenose e velocissime battute. Bryan Cranston è un perfetto funzionario Cia: con le sue rughe e la sua durezza può essere questo personaggio, come può essere un credibile malavitoso nei panni di Shannon, il meccanico di “Drive”.
Il tutto condito dalle note di Alexandre Desplat, un nome una garanzia, ingaggiato qui dopo gli innumerevoli successi delle musiche dei film di maggiore fama, perfino in Italia con “Reality”. A questa colonna sonora sono stati aggiunti felicemente brani rock di quegli anni: Vah Halen, Dire Straits, Rolling Stones, Led Zeppelin. Quindi ARGO. Ma perché? Il perché viene dalle battutacce del produttore del falso film Lester Siegel (Alan Arkin) e da una vecchia barzelletta che non ha bisogno di traduzione:
- Knock knock
- Who is?
- Argo
- Argo, who?
- Ar, go fuck yourself!
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