Regia di Guy Moshe vedi scheda film
Il Bunraku è un tipo di teatro di marionette in cui si assemblano tra loro l’arte appunto delle marionette, l’arte oratoria del marionettista che dà voce al personaggio, e la musica. Per non parlare dello scenario, esso stesso un elemento a parte e fondamentale del teatro di marionette, che va dal semplice fondale dipinto a scenari più complessi, fatti a più livelli di profondità, creando un vero e proprio diorama.
Il film di Guy Moshe, che porta lo stesso nome del teatro di marionette giapponese, è un vero e proprio Bunraku. Non ci saranno i pupi, bensì attori in carne ed ossa, ma tutta la set-decoration è una grossa e affascinante ricostruzione in interni, di stampo teatrale, di luoghi, ambienti e paesaggi studiati proprio sullo stile del diorama. La messa in scena espressionista - piani e scenografie inclinati, giochi di ombre, etc. - le luci anti-naturalistiche, le tonalità accese di colori fumetto come fumetto sono i personaggi della storia, la coreografia teatrale dei dialoghi come delle numerosissime scene di lotta, sono tutti elementi profilmici preferiti dal regista che, pur ricreando molto anche a computer, si concentra soprattutto con la plasticità della scena regalando un’ambientazione straordinaria che batte dieci a uno il 3d di Avatar e la CGI di Anelli, Hobbit ed altro.
La verità plastica che si percepisce dalla visione del film fa un tutt’uno con la bizzarria iperrealistica dei personaggi, incastonati in una veccia classica storia di vendetta. Infatti, in una imprecisata città del presente/futuro (?) arrivano due stranieri, un po’ come nei film di Sergio Leone con cui il cinema è sempre in debito, e specialmente Bunraku in più elementi. Uno è il vagabondo interpretato da Josh Harnett, cowboy dal look country-grunge, e l’altro è Yoshi, samurai giapponese nipote di un ristoratore del posto. Entrambi sono sulle orme del crudele despota della città, un Gandalf al contrario, nero e oscuro, a cui dà corpo e volto Ron Perlman, e che tiene in scacco l’intera città attraverso le sue bande di criminali prezzolati che sfidano altre bande in nome di un assurdo gioco alla violenza per la violenza. A capitanare gli “assassini” di Nicola, nome del personaggio di Perlman, è un sadico e sottilmente complessato e impotente Kevin McKidd, che aspetta solo di tradire il suo capo e impossessarsi del potere assoluto.
La riflessione, anche facile, sul potere e sulla violenza come caratteristica del mantenimento del potere, coinvolge anche un aspetto più antropologico molto interessante: ovvero che l’uomo fin dalla sua comparsa nel mondo ha dovuto, difendersi, organizzarsi e attaccare e lottare sempre con la violenza, facendo del famoso “spargimento di sangue” in luogo di quello di sperma - leggetevi La mente del Viaggiatore di Eric J. Leed (Il Mulino, 1992) - il fondamento della struttura sociale primitiva come moderna e infine, ahinoi, contemporanea.
Da questo alto punto di partenza, Bunraku parte in quinta senza nessuna difficoltà a tralasciare le questioni politiche e filosofiche sullo sfondo e ad immergersi in un bellissimo gioco fumettistico che lascia sbigottiti per la bellezza della resa plastica del diorama a metà strada tra il Giappone imperiale, la city newyorchese e l’iconografia western a cui appartiene il personaggio di Hartnett, esteticamente simile ad un novello Wyatt Earp, che entra in scena niente meno che in treno come il Lee Van Cleef di Per qualche dollaro in più (1965). Il regista però preferisce le architetture giapponesi, e buona parte del film è ambientato in luoghi che ricordano l’estetica appunto giapponese. Certo questo non toglie il fascino del saloon, gestito da un bartender filosofo con il volto di Woody Harrelson, lo stallaggio dove combattono per la prima volta Hartnett e il suo pard giapponese Yoshi, fino alla nostalgica via western dove si svolge la scena finale, fotografata da una intensa luce gialla da innaturale sole al tramonto. A metà strada tra chambara e western - la sfida all’ok corral è citata in più occasioni - Bunraku mette insieme occidente e oriente nelle sue due estetiche maggiori, nelle sue due culture più popolari e riconoscibili, per immaginare attraverso il gioco immaginifico di cronotopi spuri una visione del mondo più tollerante e più integrazionista.
Lo arricchisce un cast notevole di cui fa parte pure Demi Moore, e in cui Hartnett spicca per sobrietà, maturità del gesto e profondità dello sguardo. Cast tutto votato comunque ad un unico fine: quello di condannare l’uso di armi e della violenza per mantenere il potere e il rispetto, giocando proprio sull’uso e la coreografia di danzi mortifere. Quasi paradossalmente, la forza di Bunraku è la violenza e la lotta, l’oggetto della sua discussione autoriale. Senza per questo togliere valore alla dialettica tra cos’è bene e cos’è male. Anche perché, come dice Hartnett, ci sarà sempre qualcuno più forte di te, e questo distopicamente ribalta ogni buon proposito e incita ad una naturale e vivifica lotta perpetua tra esseri umani. Un cast, infine, che impreziosisce proprio questa sentita tematica attraverso le pose e l’istintualità violenta di ogni personaggio, eccezion fatta per il filosofo Harrelson che l’unica cosa che sogna è vendere whisky nel suo saloon. Touché.
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