Regia di Béla Tarr vedi scheda film
I drammi della gente comune. Gli inferni della normalità. Béla Tarr, nel titolo di questo film, ironizza sulla tradizionale immagine del focolare domestico come luogo di pace e di calore. Nello stesso tempo coglie l’occasione per rivolgere la solita accusa di cinica inefficienza al sistema burocratico che, nell’Ungheria del secondo dopoguerra, anziché regolamentare la distribuzione delle risorse e gestire i servizi ai cittadini, diventa un effettivo ostacolo al buon funzionamento della società. La casa dei genitori di Laci, che è sposato con Iren ed è gia padre di una bambina, è palesemente sovraffollata, visto che deve ospitare, oltre al fratello e alla sorella di Laci, anche lui stesso con moglie e figlia: i due coniugi hanno invano richiesto l’assegnazione di un appartamento, che lo stato, da anni, continua a rinviare a data da destinarsi. Da questa frustrante situazione Béla Tarr trae spunto per sviluppare la polemica, fatta propria da molti autori dell’Est Europeo, nei confronti all’apparato amministrativo del socialismo reale. Il discorso è accostabile all’argomento dei primi cortometraggi di Krzysztof Kieslowski, a sfondo sociale, come Urzad (The Office) del 1966 (ambientato in un ufficio pubblico, dove gli utenti, perlopiù anziani, fanno la fila davanti a sportelli presidiati da impiegati insensibili ai loro problemi) oppure Refren, del 1972 (sulla riduzione della morte e della sepoltura ad un’ordinaria ed anodina pratica amministrativa). Intorno a questa ufficiale impossibilità di essere felici, Béla Tarr costruisce una storia di incomprensioni ed umiliazioni, vissute all’interno del nucleo familiare, in cui l’incompatibilità di carattere si mescola con la gelosia e l’autoritarismo del suocero di Iren, che non la può vedere e continua a rivolgerle parole offensive ed astiose. La convivenza coatta, che nasce dall’assenza di prospettive e dalla negazione del diritto ad evolversi, sviluppando autonomia e benessere, sembra una metafora della casa comune comunista, dove i desideri individuali sono sacrificati ad un livellamento imposto da un regime corrotto, che riserva canali preferenziali ai pochi privilegiati, abbandonando le masse al loro triste destino. Stare insieme per forza, e quindi stare male, è la condizione che favorisce i soprusi dei potenti a danno dei più deboli: il comportamento del padre di Laci nei confronti della nuora è una vera e propria persecuzione psicologica, che inizia trasmettendo alla vittima un senso di inadeguatezza (sei una cattiva madre) e prosegue poi infangando la sua immagine (sei una donna priva di ritegno), per infliggerle, quindi, il definitivo ostracismo. Critica (infondata), condanna (calunniosa), esilio, sono le tre fasi con cui anche il dissidente politico (o, in generale, il personaggio sgradito o scomodo) viene progressivamente escluso dalla collettività. Quello che il padre di laci opera nei confronti di Iren è un autentico esproprio morale ed affettivo, che la riduce ad una vagabonda solitaria, senza un soldo e senza un tetto. L’emarginazione ritratta in Family Nest è quella stabilita dall’alto, per decreto o arbitrio, determinando il destinatario del provvedimento solo in virtù della sua presunta inferiorità (e il maschilismo è, in effetti, un altro tema affrontato nel film); di altra natura è l'emarginazione che sarà presentata nel successivo Outsider, il cui protagonista è diverso per scelta, e spontaneamente si autoelimina, uscendo di scena non appena si sente in dissonanza rispetto all’ambiente circostante. Per altri versi, questo film si riallaccia al precedente cortometraggio Hotel Magnezit, l’opera d’esordio di Béla Tarr, in cui il colpevole (o presunto tale) è l’individuo che, per il fatto di essere caduto una sola volta in errore, nessuno vuole più, e per questo va definitivamente allontanato dal gruppo. La crisi coniugale, indotta dalle incertezze sul futuro e dalle difficoltà materiali, ritornerà, tre anni dopo, in Prefab People, basato sulla tesi secondo cui essere persone semplici e comuni è il principale ostacolo alla libertà di decidere della propria sorte, perché, nel disagio, inseguire i propri sogni mal si concilia con la quotidiana lotta per la sopravvivenza. In questo contesto così pragmatico, parlare delle proprie profonde angosce, dei propri problemi di cuore, è un lusso che ci si può concedere solo a titolo di sfogo personale, perché è vano sperare di poter trovare ascolto, soprattutto presso le persone che ci sono può vicine. Nasce così, probabilmente, come naturale conseguenza della incomunicabilità, lo stile monologico che caratterizza l’opera di Béla Tarr: narrare di sé significa innanzitutto, manifestarsi alla propria vita, ed affermare comunque la propria esistenza, anche se i suoi echi sono destinati a perdersi nel nulla.
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