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Almanacco d'autunno

Regia di Béla Tarr vedi scheda film

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La recensione su Almanacco d'autunno

di OGM
8 stelle

Il cinema di Béla Tarr è un teatro in cui gli attori sono personaggi e scenografia, voce recitante e voce narrante: l’azione è tutt’uno col contesto, il vissuto inscindibile dal raccontato. In questo film, chiuso tra le quattro mura di un appartamento dagli arredi sontuosi, ma in stato di semiabbandono, si celebra la poesia decadente di un’umanità che riflette sul presente come se fosse già parte del passato: il futuro è solo l’imminente conclusione di ciò che si avverte come già finito. La speranza è potersi lasciare davvero tutto alle spalle, e potersi serenamente affacciare sul nulla: l’unica autentica e definitiva liberazione dai vincoli determinati dal sangue, dall’amore, dall’amicizia e da tutti gli impegni che, volenti o nolenti, contraiamo per il semplice fatto di esistere e di dividere il nostro territorio con i nostri simili. L’obiettivo comune è il superamento di tutti i legami, la sistemazione di un conto che, sotto la duplice pressione dell’attaccamento passionale e del bisogno psicofisico, è costantemente salito nel corso degli anni. Janós, il figlio di Hédi, l’anziana e facoltosa padrona di casa, ha accumulato debiti in denaro, Anna, l’infermiera di  Hédi, ha collezionato amanti, senza mai provvedere a smaltire i precedenti; Miklós non è mai riuscito a staccarsi del tutto dai suoi oscuri trascorsi di uomo violento, mentre la stessa Hédi si è riempita la mente di ricordi e di aspettative che non hanno dato i frutti sperati, e che ora rimangono in lei ad alimentare cupe e incessanti inquietudini. Queste pesano, sulla sua anima, nello stesso modo in cui la presenza delle altre persone sembra opprimere il suo corpo: la convivenza, in quell’abitazione così spaziosa, eppure così ingombra di aria soffocante, è una prigionia che comprime i desideri e induce una strana ebbrezza, sfociante in sogni di fuga e trasgressione. In quel serraglio si incrociano attese disparate e indefinite, che apparentemente si appoggiano su progetti concreti (soldi, sesso, divertimento), ma in realtà si dissolvono in un’ansia oscillante tra la rabbia, l’euforia e il disincanto. Stare insieme non è facile, capirsi lo è ancora di meno, perché quello che ci si può scambiare sono solo i brandelli dei propri fallimenti, le scorie delle proprie delusioni. Parlarne, tentare di condividerli è un inutile tentativo di liquidarli per sempre: è l’affanno di un autunno che vorrebbe consegnare i mucchi di foglie morte alla notte dell’inverno, mentre invece il tempo resta ostinatamente fermo in un interminabile preludio della fine. Quella casa preme per essere svuotata: i muri sono scrostati, gli oggetti fuori posto, i mobili in parte accatastati e coperti da lenzuoli; e tutto sembra invocare l’arrivo del buio, mentre strane e mutevoli luminescenze invadono le stanze, tingendole ora dei contrastanti cromatismi del tramonto, ora del pallido bagliore della luna. Tutti aspettano l’arrivo della pace eterna, ma intanto una insana smania di rinascita continua a tormentarli, a spingerli a dibattersi in un’assurda lotta per la sopravvivenza che produce solo un ermetico nonsenso. L’approdo che scioglierà quell’asfittica maledizione sarà un atto di resa, in cui ognuno andrà a occupare, in buon ordine, il posto che gli compete nell’organizzazione del mondo: il carcere, il matrimonio, un ruolo che chiuda una volta per tutte la partita e metta, ad ogni cosa, l’inamovibile sigillo di una chiara ed univoca definizione.  Almanac of Fall è un ritratto a colori dell’angoscia di non potersi specchiare nell’altro, e di non avere un domani su cui posare lo sguardo: è l’agonia dell’individuo che non si riconosce in niente e in nessuno, eppure qualcosa gli impedisce di smettere di lottare e di abbandonarsi, semplicemente, al proprio destino di morte.

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