Regia di Martin McDonagh vedi scheda film
Non è uno dei soliti thriller violenti hollywoodiani, quanto piuttosto un film sui soliti thriller violenti hollywoodiani. Si respira un po' di Tarantino nell'aria, e difendendosi a suon di sceneggiatura dotata di ostentata brillantezza e originalità insistita quanto superficiale, 7 Psychopaths offre risultati altalenanti sul destino dell'Hollywood di oggi, criticata certo, ma che dimostra con questo film che è in grado di guardarsi dal di dentro (non parliamo certo di The Canyons di Schrader, qui gli attori sono talmente importanti e ricercati da evitare qualsiasi idea di film realmente indipendente) e di saperlo fare con un savoir faire che in fondo finisce per celebrarla. Controproducente in questo senso, il film di McDonagh può offrire aspetti più ghiotti e interessanti per ciò che riguarda lo sfoggio di trovate meta-cinematografiche più o meno geniali che riguardano i vari personaggi, la costruzione della loro storia, la loro graduale destrutturazione/ricostruzione attraverso vari colpi di scena fino alla sparatoria finale che possa, più che demitizzare uno stereotipo, raccontarlo, esasperarlo e davvero celebrarlo fino al midollo. Non si avverte reale autocritica, nel film, quanto un gusto per il nonsense che è un po' atteggiamento arrogante, un po' atteggiamento maestrino, un po' approccio oggettivamente originale. Sì, perché per apprezzare questo film è bene contestualizzarlo nei "soliti thriller hollywoodiani", in cui la violenza la si spaccia mediante trame "importanti" e non certo per il semplice rapimento di uno shitzu. E se l'autoironia non funziona nella struttura generale e in alcuni stereotipi, riesce ad attivarsi nei momenti più imprevisti per ciò che riguarda i ritmi, che qui esplodono in eccessiva e tarantinesca emoglobina e sprazzi di genio che riguardano i divertenti flashback in cui Tom Waits è il marito di una donna nera che uccide i serial killer e un vietnamita che alla fine si rivela un martire buddhista. La volontà di capovolgere tutto è ipocrita quanto genuina, propria di un film che si mantiene in realtà sul sicuro, non sfonda mai il politically correct facendosi apprezzare da tutti, ma che sa divertire in maniera abbastanza intelligente, se si è disposti a farsi prendere un po' in giro. D'altronde parliamo della fabbrica dei sogni per eccellenza, e qui i colori vividi dei deserti e del sangue che sprizza sollevano l'animo più giù di morale allo scopo di un intrattenimento genuino e puramente cinematografico. Niente di nuovo per ciò che riguarda l'idea di costruire un film su se stesso, ovvero sulla sua realizzazione (che poi sarà un film in se stesso, e l'aveva fatto già Fellini in termini metafisici/onirici/tematicamente diversi), qualcosa di nuovo, almeno per il cinema americano di massa (qual è quello di 7 Psycopaths, volenti o nolenti), sta nell'elaborazione dello straordinario confine fra capacità creativa dell'autore e reale realtà. Qui si scava dentro una tematica stra-abusata ma che qui si chiede effettivamente e imprevedibilmente cosa merita di essere raccontato e cosa deve davvero basarsi sulla verità. Anche in termini prettamente contenustici, qual è la funzione di un film rispetto alla verità pratica dell'esistenza degli spettatori? E cosa davvero è lecito fare per una semplice ispirazione? McDonagh sa (anche troppo) quello che fa per sbavare in qualche sequenza, e quindi il risultato è una brillante commedia neanche tanto divertente e con molte ingenuità di sceneggiatura ma che si fa beffe della semplicità e almeno all'inizio confonde fra verità della sceneggiatura e verità vera, destando una sorta di trama gialla in cui a dover essere scoperto è sì un killer, ma anche se questo killer esista davvero. Il divertimento modesto è abbastanza assicurato: peccato che manchi una sincerità di fondo che anche Tarantino, nei suoi sproloqui esasperati, dimostrava e dimostra tutt'ora.
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