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Amen

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Amen

di OGM
8 stelle

Cercare l’invisibile, parlare attraverso l’assenza. Non esserci, sparire, negarsi come estrema modalità per dare un senso alla propria vita. Perdersi per essere inseguiti: la vicinanza è inutile e dolorosa, il distacco invece è il movimento che attiva i due estremi, innescando, tra di loro, il conflitto e l’attrazione. Nel cinema di Kim Ki-duk il principio generatore è l’incompletezza. La rinuncia ad una parte di sé è la condizione che costringe a immaginare la propria metà mancante, a costruirla con la mente, non potendo afferrarla con la mano. La cecità è la creatività che riesce, anche nel silenzio della solitudine, a riempire il vuoto, mediante la sostanza viva della propria irrequietezza. La protagonista di questa storia ha due grandi occhi che guardano smarriti il mondo al di qua dell’obiettivo. Ciò che vede, mentre si sposta freneticamente attraverso l’Europa, è un nulla che assume sempre forme nuove, intrise di frustrazione e di speranza, di paura, di rabbia e di gioie inattese. Il suo Hee Byung-soo è scomparso. Ad ogni porta alla quale bussa, una voce le risponde dicendole che lui non c’è più, che è partito per un altro Paese, un’altra città. La ragazza prosegue comunque il suo viaggio disperato, anche se, durante il sonno, le hanno rubato la borsa, tutti i soldi, e perfino le scarpe che aveva ai piedi. Continua ad accarezzare l’aria con il suo sogno inconsistente, usando la fantasia per arabescare il cielo, come una ballerina usa il corpo per tracciare disegni sulla scena. Ad un certo punto quella giovane donna danza, per davvero, sulla pubblica piazza, in mezzo alla gente, bendata e con il bicchiere delle elemosine legato ad un piede. Si fa leggera e si solleva dal peso delle difficoltà e delle incertezze, ed allora, come nelle favole, il miracolo si compie. L’astrazione è beatitudine, anche quando fiorisce tra gli stenti, nell’emarginazione, ai bordi di una strada senza uscita. Lascia dietro di sé una scia di sangue, di desideri inappagati, di colpe da espiare, e così si imprime profondamente nell’anima, diventando importante e indimenticabile. Il suo marchio è la tentazione di distruggere se stessi e gli altri, per porre fine ai dilemmi e pervenire ad un’illusoria liberazione. Invece il male che lambisce la coscienza è un tormento che agisce come ispirazione. L’ossessione non dà pace ed alimenta il fuoco della vita, facendolo bruciare anche quando l’energia prodotta non si converte in forza propulsiva, ma è solo calore che si disperde. È così che la vacuità si trasforma in un dramma dall’alto contenuto poetico, composto  e lineare nei gesti ma tortuoso e dissestato nei suoi percorsi interiori. Una sagoma trasparente, dal contorno graziosamente spezzato. Le sue punte sono casuali picchi di incongruenza. Come un principe azzurro che fa il ladro ed indossa una maschera antigas. 

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