Regia di Edoardo Gabbriellini vedi scheda film
La provincia mortale. La roccaforte del campanilismo è una trappola per chi osa entrarvi da intruso, credendo di potervisi muovere da libero cittadino, come fruitore di beni e difensore di diritti. Due fratelli romani giungono in un paesino di montagna per effettuare lavori di pavimentazione nella villa di un famoso cantante, che vive con la moglie invalida e la badante straniera. Per Cosimo ed Elia sarà purtroppo inevitabile, durante la loro permanenza, mescolarsi alla vita della gente del luogo, partecipando ai loro divertimenti, ed intromettendosi nelle loro passioni più o meno proibite, di cui sono gelosissimi custodi. L’ospite è subito malvisto, perché dotato di occhi che vedono e di una mente che pensa. La prospettiva esterna è una pericolosa fonte di giudizio, capace di relativizzare i miti locali, mettendoli alla prova, e mostrandone i punti deboli. Lo straniero è il nemico che, anche non volendo, insidia il potere dei padroni di casa, i primi del villaggio che non sopportano di finire secondi, perdendo la loro assoluta autorità. In quel remoto angolo di mondo, è facile comandare, dato che le leggi non arrivano a far sentire la loro forza, e molto più vincolante è l’accordo settario stipulato all’interno del gruppo, che stabilisce gerarchie e codici comportamentali. Bastano due uomini, venuti armati della loro creatività, coscienza e carica emozionale, per turbare quell’ancestrale equilibrio. Sono due tipi poco raffinati, però vivaci e spontanei, autentici ed ingenui, e dunque naturalmente inclini ad osare senza preoccuparsi delle conseguenze. Sono individui aperti in un ambiente chiuso, che tutti i suoi abitanti usano come un rifugio, per nascondere vizi e peccati e tenere sotto controllo la situazione. C’è chi abusivamente caccia i lupi, una specie protetta, e chi fa finta di amare la consorte, di cui in cuor suo vorrebbe sbarazzarsi. Il sentimento si confonde con il desiderio di dominio, perfino i contorni dell’amicizia appaiono definiti in termini di appartenenza al clan e di complicità in una sciovinistica forma di protezionismo. Il film di Edoardo Gabriellini è spietato, sia pur senza alcuna enfasi polemica o caricaturale, nel presentare lo squallore di una realtà che può apparire ruspante e pittoresca solo perché è brutalmente primitiva, selvaggia nei modi ed ottusa nella mentalità. Poesia, bellezza ed armonia – quelle contenute nelle canzoni della star Fausto Mieli – sono la facciata di un finto paradiso, in cui l’intimità domestica è anzitutto un covo di silenziosa crudeltà. La verità si scopre poco a poco, mano a mano che il confronto tra i personaggi si arricchisce di nuovi elementi e si moltiplicano le circostanze in grado di mettere in luce le diversità, facendone motivo di imbarazzo, discordia e diffidenza. Questa gradualità è il tratto distintivo di una triste avventura raccontata con scrupolo, ma con mano leggera, sfiorando appena la superficie degli eventi, degli equivoci che li innescano e li fanno degenerare, fino a che il flusso del non detto e delle parole fuori posto sfocia in una tragedia, scoppiata proprio a causa della prolungata impossibilità di fare chiarezza. Il male germoglia sotto un manto di burbero ermetismo. Ed i moderni rusteghi sono gli ordinari artefici delle pagine più nere della cronaca dei giorni nostri.
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