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Reality

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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La recensione su Reality

di MarioC
9 stelle

Un sogno che acceca, una vita che ne rincorre altre e smarrisce la sua direzione. Reality è un capolavoro lucido e tristissimo, un elzeviro su ciò che siamo diventati, una canzone triste innalzata alla incapacità di (accettare di) essere se stessi.

Con Reality Matteo Garrone diventa il personaggio di un suo film, facendosi tassidermista di esseri umani in costante bilico tra catene del quotidiano e vie di fuga ricercate in modi e direzioni sbagliati. Luciano, il pescivendolo imbelle e suonato che sogna il riscatto facile e redditizio (il riscatto che, ai poveri di spirito e di portafogli, pare poter essere garantito da quella assicurazione sulla vita vuota che sono i reality show), viene dal regista imbalsamato negli sguardi ciclicamente uguali a se stessi pieni di odio, speranza, rancore, disillusione, infine rassegnazione. Imbalsamato ed anche vivisezionato, perché Garrone è autore che non ha paura di scendere nei diverticoli dell’animo umano, alla ricerca del motore delle azioni e, soprattutto, della genesi delle devianze, siano esse il portato di devastazioni fisiche e psichiche (come ne L’imbalsamatore o in Primo amore) ovvero la conseguenza di vite impastate nella necessità di prevaricazione e di riconoscimento sociale.

Reality è una Gomorra del proletariato, onesto per tigna o forse pigrizia (ma quel pesce sarà realmente fresco? Ed il mercato nero dei robottini, allora?), eppure pronto a fiondarsi sulle minute occasioni che la quotidianità può offrire, con la forza di una disperazione che si fa malattia e delirio, imbracciando kalashnikov di autosuggestione che possono fare molto male, con i loro proiettili invisibili che lasciano vulnus non cicatrizzabili.

Sarebbe tuttavia facile dire che Reality è solo il ritratto senza compiacimenti di un uomo completamente alla deriva, la rappresentazione iconografica della evidente sproporzione tra un sogno ed una sintassi di linguaggio e comportamento. Il film è molto di più: è un pamphlet consapevole e per certi versi devastante, un trattato sociologico sgradevole eppure lucido sugli ultimi anni (non certo i migliori) delle nostre vite, quelli in cui altri per noi hanno deciso le nostre scarpe e i nostri vestiti, ma anche il modo in cui pensare al futuro, rivoluzionando scale di valori e sostituendo alle certezze piume di struzzo ed illusorie alterità socioculturali. Lo sguardo febbrile di Luciano ci costringe a fare i conti con ciò che non siamo (più) e ciò che non vogliamo; perché siamo tutti figli di un’altra, ugualmente proteiforme ed intossicante, sequela di lustri che vanno a comporre un ventennio. Il ventennio della nostra trasformazione.

Garrone si conferma enorme direttore di attori: la famiglia di Luciano, composta da personaggi che sembrano usciti da una litografia drammatica e sovraccarica di Botero, controcanto ironico ma partecipe del sogno, voce un po’ flebile della coscienza (tanto che non manca un grillo, seppur non parlante, ad acuire la pazzia del pescivendolo, nella sua favolistica ma inutile funzione di memento), i deus ex machina del caterpillar televisione, la folla che si accalca nei centri commerciali (nuove piazze e moderni mercati del tutto e subito), i comici veri, o già arrivati, ed i loro sguardi di pietistica commiserazione nei confronti della spontaneità inane di chi presume doti che (non) sa di non avere. Un rondò di facce e movimenti tristi che il regista orchestra sapientemente, creando un mirabile effetto di saturazione allegorica.

E poi c’è Luciano, il povero, caro pescivendolo, verso il quale lo spettatore non può non provare una chimica simpatia irrazionale, forse perché manifesto, quasi uomo-sandwich, delle sue speranze inconfessabili. L’interpretazione di Aniello Arena, attore per caso ma anche per istinto, ergastolano nella vita reale (quasi a creare un corto circuito di non facile decrittazione), schiavo di se stesso nella fiction, è davvero magistrale. Un caleidoscopio di espressioni, in un girotondo di passioni, speranze e loro contrari, che sgomenta, affascina e, comunque, intristisce.

Per i prossimi venti anni occorrerà portare con sé una copia di Reality, anche per vedere se e come il film possa invecchiare. Nel 2036 dovremmo rivederlo, e scoprire l’effetto che fa. Possiamo sin da subito augurarci che esso sia allora diventato mero reperto storico, fossile di un evo ormai lontano. E’ purtoppo lecito dubitarne e credere al contrario che Reality sia stato soltanto il primo segmento di un lunghissimo ed eterno documentario sulle nostre vite smarrite

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