Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
Ero molto curioso di vedere il nuovo lavoro di Matteo Garrone dopo “Gomorra”, che personalmente continuo a considerare il risultato più alto della cinematografia italiana dall’inizio del nuovo Millennio, un valido adattamento del libro di Saviano (seppur, inevitabilmente, molto differente da esso) e un eccellente esempio di cinema di impegno civile, perfino superiore rispetto ad illustri predecessori come “Salvatore Giuliano” o “Le mani sulla città” di Francesco Rosi. Venendo a “Reality”, Garrone conferma l’ambientazione napoletana, l’uso di attori per lo più non professionisti, l’interesse per personaggi di estrazione popolare, ma stavolta sceglie una fotografia molto più sgargiante e “barocca”, dai cromatismi accesi e dissonanti che sembrerebbe rimandare più ad Almodovar che agli esempi del cinema di denuncia sociale. La trama riguarda Luciano, un modesto pescivendolo con famiglia a carico che arrotonda con traffici illeciti in cui vengono smerciati “robottini” a vecchiette ingenue, che un giorno partecipa ad un provino del Grande Fratello e viene colto dall’ossessione di divenire famoso in televisione, fino a perdere il suo equilibrio mentale. Sul tema della “sindrome da celebrità televisiva” sono state fatte già molte pellicole, ma questa risulta costruita con un taglio abbastanza particolare e non scade nel “deja vu”: si potrebbe parlare di un’influenza felliniana in diverse sequenze, soprattutto nella scena iniziale del matrimonio dove Luciano si traveste da drag-queen, ma Garrone ha un modo tutto personale di condurci attraverso una Napoli colorata e iperrreale che sembra ricordarci quella de “L’amore molesto” di Mario Martone, altra storia di anime in pena, anche se filtrata da un’ottica femminile. Qui invece il calvario tragicomico di Luciano, che parte in toni leggeri ma poi si fa sempre più nero e disperato, è il riflesso di una società dove l’apparenza ha già da tempo soppiantato la sostanza, dove la mediocrità prevale sul talento, dove il vuoto di valori conduce alla follia, nonostante la presenza sempre rassicurante di affetti familiari che in “Gomorra” restavano per lo più sullo sfondo. A mio parere il film ha una buona tenuta narrativa e figurativa per quasi tutta la sua durata, con alcuni pezzi di bravura registica e attoriale proprio dove la fissazione di Luciano si trasforma in “malattia” (esilarante e quasi bunueliana la scena dei mendicanti che ricevono in dono le suppellettili da Luciano, vengono cacciati dalla moglie e poi costantemente richiamati dal protagonista). Il finale, invece, che naturalmente non posso rivelare, l’ho trovato un po’ irrisolto, come se Garrone avesse voluto consapevolmente lasciare un certo margine di ambiguità e di dubbio e non sciogliere chiaramente la vicenda. Molto efficace la recitazione di Aniello Arena, ergastolano trasformato in attore che a tratti ricorda Totò, ben affiancato da volti inediti fra cui spicca almeno Loredana Simioli nel ruolo della moglie e il comico Nando Paone nel ruolo di Michele.
voto 8/10
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