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Reality

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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La recensione su Reality

di ROTOTOM
8 stelle

Il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2012 arriva finalmente nelle sale italiane. Reality di Matteo Garrone è il film definitivo sulla devianza contemporanea del postulato wharoliano dei famosi 15 minuti di celebrità che spetterebbero di diritto ad ogni persona del pianeta. Il reality show dilata questo tempo all’infinito e si espande oltre le barriere della finzione per contaminare la realtà. Reality esce in un periodo di sovraffollamento distributivo, in ritardo di mesi dalla consacrazione del festival francese e quindi con la spinta del premi ormai esauritasi nelle paludi immote della distribuzione estiva.
Esce anche nel periodo di maggior flessione del reality per eccellenza, Il Grande Fratello, che è al centro della vicenda. Risultato, non se lo fila nessuno. Scarsissimi gli incassi al botteghino, quasi fallimentari, per uno dei film più lucidi e spietati sul triste mondo della realtà contaminata e posseduta dal demone della famosità.

Famosismo neologismo spurio che contiene in nuce l’errore che descrive,   connota l’essere famoso senza un perché, senza un merito o talento alcuno. Parabola triste della condizione umana che esibendo neppure un sé nascosto , piuttosto elevando a potenza il mediocre sé quotidiano, conduce ad una sorta di salvezza spirituale in grado di elevare il soggetto al di sopra della massa che rappresenta e alla quale apparteneva.



Reality arriva forse fuori tempo massimo, le sirene e i lustrini del sogno ( irr)real(ity)e è stato schiantato dalla crisi vera, molto più pesante di quella della notorietà. Rappresenta forse un “senno di poi” sul viale del tramonto e più che mostrarne gli effetti contemporanei ne ratifica la follia appena trascorsa ma non del tutto tramontata.

Che ci sia una motivazione, una vocazione parareligiosa nella possessione da notorietà è pacifico, in questa società pornografica che si accontenta di un’immagine parziale per risolvere una vita o un’attività umana in forma intera, il santino votivo dell’immagine televisiva è immagine di salvezza e redenzione da una vita costretta nella normalità. Normalità divenuta estensione ontologica di fallimento. Di più: di peccato.



Il film di Garrone si muove in questo contesto, sospeso tra realtà e finzione e dimostra come la finzione sia parte integrante della nostra realtà per cui il Grande Fratello altro non è che la manifestazione fisica, iperbolica e salvifica  di una condizione già esistente. I matrimoni da” favola” iniziali, surrogati barocchi e decadenti  del giorno più bello si liquefano nel piano sequenza successivo, dove in una abitazione fatiscente i componenti della famiglia Ciotola si svestono dei lustrini per adeguarsi alla realtà. Finzione è forse il meraviglioso finale, onirico e sospeso in un nulla agognato e finalmente ottenuto

Le scene inziale e finale sono due momenti straordinari, ciò che è visivo si confonde con il  visionario rivestendo ogni immagine di un senso più profondo e triste.  La dimensione del sogno  avviluppa le esistenze di un’intera comunità che ha delegato all’apparire più pacchiano il proprio immaginario, mutuandolo da una canonizzazione televisiva imperante, soffocante e legittimata dallo spirito di salvezza che millanta.



“L’arma finale del Dr. Goebbels”. Così Bonvi fece dire ai suoi fantaccini immersi nella mota fino alla cintola nelle strisce di Sturmtruppen. L’arma che si ritorceva contro gli stessi possessori visto che convinceva facilmente le truppe ad affrontare assurde missioni suicide. La televisione.



La missione suicida indotta dal virus televisivo, geneticamente mutato  tra Videodrome e Ok il prezzo e giusto!  è  l’autoreclusione in uno spazio esclusivo, visibile e invisibile al tempo stesso. Povero di significati orwelliani ma capace di guidare le masse e infettare i corpi dei sognatori modificandone comportamenti e psiche e al tempo stesso mercificandoli ad una farlocca giuria nazional popolare che con tutta la frustrazione degli esclusi, mortifica, giudica, taglia e compra alla fine il meno peggio. Il personaggio che più si avvicina alla media banalità del giudice stesso.



La parabola di Luciano Ciotola (un grandissimo Aniello Arena) ha la caratteristica della missione cristologica, nella quale alle icone sacre si sostituiscono simboli di pagana quotidianità.  A causa di un provino  per il Grande Fratello, si autoconvince di essere spiato da “quelli della televisione” e stravolge la propria vita in attesa di una chiamata che potrà risolvere la sua vita.  Luciano vive in una “grotta” alla periferia di Napoli, sua moglie si chiama Maria, la visione del paradiso “altro” lo porta a disfarsi dei beni materiali verso i poverelli seguendo il “messia” , Enzodelgrandefratello (pronunciato tutto d’un fiato altrimenti chi cazzo sarebbe mai Enzo?) che pontifica banalità e ascende al cielo con l’elicottero, attende la chiamata verso la luce, quell’unica luce che illumina  la casa del Grande Fratello in mezzo alla campagna romana, dove i sogni, forse, prendono vita. Una vita migliore.

Un affresco poetico sul nulla che accarezza i protagonisti, il tentativo di elevarsi dalla rozza quotidianità si trasforma in estasi trascendentale . Garrone filma lo sguardo di Luciano, fisso verso un punto lontano testimone di una verità esclusiva, una realtà omessa dalla materialità della vita e sublimata nel desiderio. Il profilo del protagonista scontorna la realtà in una forma astratta, lo inchioda alla solitudine dividendo lo schermo idealmente in due parti come uno ipotetico split screen nel quale lo sfondo, la realtà nota, perde di consistenza divenendo fasullo teatro delle ombre. Una vita migliore , elevata, giunta dopo la partecipazione alla Via Crucis romana.



Il viaggio verso il sogno, dimensione tanto cara a Fellini il cui spirito aleggia nel film, si compie con il salto di qualità dalla pubblica piazza del quartiere dove Luciano si esibisce e dove le truffe si servono di un ‘immaginario surreale (il robottino) per sfangare la triste quotidianità, alla Casa del Grande Fratello, l’ingresso nel sogno che tutti sognano. La necessità di Luciano come di tutti gli anelanti alla notorietà non è tanto quella di fare parte del sogno televisivo, piuttosto di entrare nei sogni altrui come termine di paragone del proprio successo. 

Reality è un film cattivo dopo tutto, è la storia di un equivoco spacciato per bisogno  che trasforma una realtà in incubo collettivo. L’incubo che non ha soluzione propone un palliativo, la televisione, surrogato di vita vera mentre lo stile neorealistico delle riprese di Garrone documenta quella realtà con spietato disimpegno. Il disimpegno dei corpi della realtà pesantemente nazional popolare, quella dei programmi TV , sgraziati e obesi, brutti e storti, ignoranti e ingenui, sognatori malgrado tutto. 
Ecco perché Reality è commedia umana e grottesca tragedia del disumano, fra riso e rabbia, le lunghe scene attendono sempre qualche secondo in più del moderno taglio di montaggio, dilatano le attese oltre la finzione della narrazione per cogliere un aspetto, un colore, una faccia di passaggio o un sospiro che  documenti qualcosa in più, un disagio invisibile e solo casualmente registrabile che giustifichi la storia.

Ecco perché è anche un film non facile da digerire e seguire. Tra inizio e fine, qualche ripetizione diluisce il racconto reiterando istanze già descritte (la svolta francescana di Luciano che regala la propria roba) ma sempre con un’omogeneità di stile e una predisposizione al surreale incastonato in una narrazione realistica capace solo ai grandi autori.

 

E’ stato il figlio e Reality

E’ stato il figlio, di Daniele Ciprì costituisce corpo omogeneo con Reality di Matteo Garrone. Ambientato nella Sicilia degli anni 80  a giudicare dalle lire fruscianti e dai vestiti, ancora la televisione commerciale non c’è. Anzi, in casa Ciraulo la televisione non funziona nemmeno. Per i personaggi, isolati In un contesto di disagio suburbano , nella periferia bruciata dal sole, il palco per esibire la personalità e l’apprezzamento necessario all’autostima e al rispetto altrui, è la pubblica piazza. Quella che in E’ stato il figlio è sostituita da un cortile asfaltato circondato da palazzoni disegnati nel più puro spirito dell’edilizia popolare impersonale e soffocante nel quale allo stoccaggio umano ai margini della città corrisponde una collocazione marginale del cittadino stesso in termini di diritti, servizi, istruzione. Quella che nel 2012 del film di Garrone è la casa del Grande Fratello televisiva, visto che la fatiscente pubblica piazza, non basta più.



I due film tracciano la stessa faccia dell’Italia che ci portiamo dietro da decenni senza soluzione di continuità. Disagiata e arruffona, superficiale e ignorante. Alla maniera del miglior Scola, i brutti sporchi e cattivi brulicano nell’approssimazione di una vita a margine sognando il colpo che risolve la vita intera. Un po’ per colpa della società un po’ per colpa loro (nostra) che fanno parte di quella società, questo non succede mai restando così impegolati in una rete di sogni frustrati da una realtà mortificante e spietata.



La dimensione del sogno è il punto coincidente di entrambi i film, la necessità di essere qualcosa di diverso da ciò che si è non passa attraverso la crescita culturale o l’intima soddisfazione per un progetto di vita protetto, seguito e portato a termine. Piuttosto è il bisogno dell’approvazione altrui, l’ammirazione e la sensazione di invidia, forse, che muove i personaggi di entrambi i film a fare ciò che fanno. Entrare nel sogno altrui ed esserne paragone dell’altrui fallimento.

Alda Merini disse che Il grado di libertà di un uomo si misura dall'intensità dei suoi sogni Il sogno di Luciano Ciotola si ferma in salotto, dentro la televisione. Quello di Nicola Ciraulo si arena poco più in là, nel parcheggio sotto casa. Il punto è proprio questo, l’umanità descritta è quella povera senza speranza, prigioniera della propria vita,  povera e limitata  anche nei sogni.

 

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