Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
La prima parte di Reality è quanto di più comprensibilmente irrisolto possa girare un regista dopo aver realizzato quel che generalmente si dice “film della vita”. Anche le pietre sanno che Gomorra è stato un film epocale, al di là del suo indiscutibile valore artistico, perché ha rappresentato la presunta rinascita universale di un cinema tutto sommato provinciale, perché ha saputo rinnovare un genere (la narrazione documentaristica di denuncia) che ci mancava dai tempi del miglior Francesco Rosi, perché raramente da un libro importante e di successo internazionale si riesce a cavare qualcosa all’altezza.
Matteo Garrone arriva alla prima prova dopo quel macigno di film con un background di aspettative forse troppo elevato ed è inevitabile paragonare Reality a Gomorra. La prima parte del film è esattamente la dimostrazione degli intenti di un regista propositivo ma consapevole dell’enorme fardello che si porta appresso, assolutamente talentuoso ma allo stesso tempo non proprio convinto riguardo ciò che sta facendo.
Nel primo quarto d’ora, Garrone felineggia alla grande con il fastoso e pacchianissimo matrimonio con annessa star (un reduce del Grande Fratello), con una carrellata di facce che il cinema italiano da almeno trent’anni ha totalmente dimenticato o relegato alle farsacce o alla tv (a parte i protagonisti, che trasudano finalmente un po’ di verità, e tralasciando Nando Paone e Nunzia Schiano che sono già arrivati alla ribalta grazie a Benvenuti al Sud, si devono segnalare i volti e i corpi eccessivi e puri, generosi e vitali di Giuseppina Cervizzi, Rosario D’Urso, Nello Iorio, Graziella Marina), con una regia fluida e mirabolante che, tanto per dire, pianosequenza con la stessa potenza tanto nello sfarzo della festa quanto nella desolante miseria delle case fatiscenti di Napoli.
Nei primi tre quarti d’ora, Garrone cammina sul filo del virtuosismo e riesce nell’impresa (per certi versi anche felliniana) di impressionare grazie ad una sbalorditiva tecnica squisitamente registica che fa dimenticare il fatto che, tutto sommato, la storia gira un po’ a vuoto. Non è troppo chiara la questione delle truffe che Luciano, Maria e Michele orchestrano per racimolare qualche soldo, non è abbastanza chiaro il reale motivo per cui Luciano si fa sedurre dal Grande Fratello al di là del lusso facile e della possibilità di un’altra vita (che sia invece una cosa così semplice da non pretendere chissà quale elucubrazione sociologica o intimistica?), non è molto chiaro come Luciano entri nel tunnel dell’ossessione.
La prima parte di Reality merita però l’onore della suspence, che tutto sommato viene ben mantenuta grazie proprio a quella mancanza di determinazione e di un prevedibile svolgimento della vicenda, che permette di creare l’attesa necessaria ad un film del genere (e le musiche di Alexandre Desplat dolci ed inquietanti agiscono proprio in questa direzione), misterioso quanto limpido, criptico quanto semplice.
Passando alla seconda parte, che inizia nel momento in cui noi abbiamo la sicurezza che Luciano non entrerà mai nella casa, Garrone diventa una specie di Antonioni dei poveri cristi (con una parentesi che ricorda il Rossellini di Europa ’51), e consolida la perplessità che già mi aveva travolto nella prima ora di film: può il talento di un regista (cresciuto nell’arco di quindici anni di attività, maturato e a suo modo trasformato) sopperire alle lacune di una storia troppo cerebrale per essere davvero coinvolgente e troppo algida per appassionare?
Sta qui la mia perplessità, perché è uno di quei sempre più rari casi in cui la forma supera il contenuto, in cui le necessarie ambizioni di un cinema (quello italiano) che non sa pensare in grande non sempre riescono a concretizzarsi in risultati perfetti. Intendiamoci, Reality è un buon film, che si avvale di un cast tecnico esimio (scenografie strepitose di Paolo Bonfini, costumi pertinenti di Maurizio Millenotti, montaggio coerente di Marco Spoletini, fotografia realistica del compianto Marco Onorato), ma osa poco e quando lo fa non è abbastanza audace, si affida eccessivamente ad una coppia di attori bravissimi ma che avrebbero avuto bisogno di uno sviluppo dei personaggi più compiuto (non è un caso che Aniello Arena, peraltro eccelso forse anche perché inedito al cinema, non sia del tutto convincente nella seconda parte, quando è divorato dall’ossessione), sceglie di non dire quando invece avrebbe avuto bisogno di far capire qualcosa di più per non affondare nelle sabbie mobili dell’incomunicabilità.
Garrone (che ha scritto il film insieme a Ugo Chiti, Massimo Gaudioso e Maurizio Braucci) dice di aver diretto una commedia, ma più che altro è una favola grottesca, cupa e triste sull’illusione dell’ossessione, che non riesce a fa sorridere (specialmente nella seconda parte) per la decadenza degli ambienti, la malinconia del protagonista, la disperazione della moglie, la superficialità del coro. Lo stesso finale desta perplessità, perché, al di là di tutto, semplicemente non è chiaro. Guarda caso si svolge a Cinecittà, in quegli spazi nei quali prendevano vita i sogni di Fellini e che oggi accolgono gli squallidi e cafoni protagonisti di un qualunque reality. Il cerchio, in qualche modo, si chiude, ma da Garrone era lecito aspettarsi qualcosa di più rispetto ad una parabola amara che riesce incredibilmente ad essere semplicistica e cerebralissima al contempo.
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