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Reality

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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La recensione su Reality

di barabbovich
4 stelle

Arriva fuori tempo massimo il film di Matteo Garrone sulla sindrome da apparizione televisiva legata al fenomeno dei reality, cioè proprio quando questi utlimi cominciano a subire una brusca flessione di pubblico in un Paese come l'Italia, quella sprovveduta e credulona già raccontata nel Pinocchio di Collodi, sintetizzata dalle schiere di seguaci di Padre Pio e vista al cinema fin dai tempi di Bellissima. Il copione che Garrone, con Maurizio Braucci, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, ci propone, è un abbecedario della deriva a cui può portare la smania di avere il proprio quarto d'ora di celebrità, un trattatello che passando per la commedia grottesca vuole arrivare al dramma con un film a tesi. Al centro della vicenda c'è un pescivendolo dei bassi di Napoli (Arena), padre di famiglia, pagliaccio triste in un Paese e una cultura in piena decadenza, che dopo l'incontro casuale con un ex residente della casa-acquario del Grande Fratello (Ferrante) va a fare un provino e si convince che prima o poi sarà selezionato. L'idea geniale del film sta nel trasferire il fenomeno da passivo (gli "internati" osservati nella casa) ad attivo (il nostro protagonista che mette in atto un'escalation di azioni deliranti perché si convince che per essere reclutato deve prima convincere gli emissari del GF che lo stanno "studiando" nel suo habitat naturale). Ma è tutto talmente algido, programmatico, cerebrale, privo di ritmo e, soprattutto, scontato, da opacizzare quanto di buono il regista fa con ambienti, luci (dominanti rosse e ocra, saturazione cromatica), corpi, riprese da altissima scuola del cinema, a cominciare dall'iniziale piano sequenza aereo e a finire con quello finale, che risale in cielo lasciando illuminato soltanto il protagonista. Come è stato per il Sorrentino di This must be the place, Garrone sembra aver sofferto del peso che Gomorra, la precedente opera assolutamente memorabile, ha lasciato sulle sue spalle, imboccando anch'egli la strada della commedia, ormai elevato a genere passe-partout. Come nel caso del collega campano, anche Garrone sembra talmente preso dal bisogno di mostrare il suo talento da preoccuparsi molto della forma e pochissimo dei contenuti. Sicché è vero  che rispetto a questi ultimi Garrone sospende il giudizio, ma il messaggio che lancia mira in basso, alle responsabilità di chi non ha i mezzi per vedere la realtà. E allora sarebbe stato assai meglio capovolgere la prospettiva, fare un altro film, non fosse altro che per il fatto che chi doveva capire ha già capito e chi non vuole capire, proprio perché non ha i mezzi, non riuscirà neppure a decodificare il senso di questo apologo.
Non si comprende poi perché il ruolo da protagonista, con tanti attori che stanno a spasso, debba essere affidato a un ergastolano per reati di camorra. Va bene che il carcere deve essere rieducativo, ma qual è il segnale che si manda, se non quello che il quarto d'ora di celebrità è concesso anche a chi sta dietro alle sbarre alla faccia dei crimini commessi? E allora un conto è fare del cinema di forte spessore pedagogico come i Taviani (Cesare deve morire) o Ferrario (Tutta colpa di Giuda), un altro concedere permessi tanto generosi.
Grand Prix al 65. festival di Cannes (2012).   

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