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Reality

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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La recensione su Reality

di Peppe Comune
8 stelle

Luciano Ciotola (Aniello Arena) vive insieme alla moglie Maria (Loredana Simioli), ai tre figli (Vincenzo Riccio, Alessandra Scognamillo e Martina Graziuso) e alla numerosa famiglia (Nunzia Schiano, Rosaria D’Urso, Graziella Marina Giuseppina Cervizzi e Nello Iorio) in un palazzo fatiscente situato nella periferia di Napoli. Gestisce una pescheria insieme all’amico aiutante Michele (Nando Paone) e per arrotondare gli scarni guadagni ha messo in piedi una truffa ai danni di un azienda specializzata nella vendita di “Robottinidacucina”. Un giorno, in uno dei tanti centri commerciali della zona, si effettua il casting per gli aspiranti partecipanti del “Grande Fratello” e Luciano, invogliato dalle insistenze della famiglia, decide di parteciparvi. Da quel giorno, l’attesa per una chiamata tanto desiderata, cambierà irrimediabilmente il corso della sua vita.

 

Aniello Arena, Loredana Simioli

Reality (2012): Aniello Arena, Loredana Simioli

 

Se è vero che con “Reality” Matteo Garrone ha voluto decisamente cambiare registro stilistico rispetto a “Gomorra” che lo ha preceduto, mi sento di poter dire che è altrettanto vero che i due film possono ben rappresentare due facce di una stessa medaglia. Ciò che li accomuna si fonda sugli stessi presupposti che hanno voluto renderli diversi, vale a dire, la differenza di toni adottata : più “drammaticamente” vicino alle dinamiche del potere criminale visto da diverse angolature “Gomorra”, più incline a “satireggiare”sul dramma esistenziale e sociale insieme di un Luciano Ciotola qualunque “Reality”. Se Matteo Garrone ha scelto di rimanere dalle parti di Gomorra per raccontarci le vicende tragicomiche di una famiglia tipo della periferia napoletana, evidentemente è perché gli interessava, non tanto e non solo riflettere sugli effetti de­leteri prodotti dalla televisione, ma mostrare la contiguità culturale tra gli stilemi comportamentali delle bande criminali e la devozione acritica verso gli oggetti simbolo della società dei consumi, il fatto che entrambi i mondi, diversissimi certamente se ci si ferma alle sole implicazioni criminogene, sono figli di un corto circuito di natura antropologica che ha prodotto di fatto un idea assai distorta di riscatto sociale e una percezione della realtà volutamente veicolata da una volontà eterodiretta. Ciò che unisce i due film è dunque il teatro sociale in cui tutto si compie, uno scenario che si nutre della sottocultura del possedere come prova essenziale dell’esserci al mondo e di quella dell’apparire come matrice qualificante di ogni impulso autocelebrativo, una società carica di aspettative ma povera di opportunità, piena di una ricchezza maldestramente ostentata ma scarica di un idea progressiva del domani. In un siffatto contesto sociale, dove Luciano Ciotola e tutti i membri della famiglia stanno a rappresentare quelle tipologie dell’umano strette come in una morsa tra un milieu urbano che ha già la strada segnata e quelle necessità indotte partorite in serie nelle fiere consumistiche delle pubbliche vanità, la televisione rappresenta il tramite per eccellenza tra la precarietà del giorno per giorno e l’illusione in un futuro da vivere finalmente da prim’attore. Con i suoi eroi occasionali e i sogni di successo smerciati a gratis, la televisione porta nelle case storie ordinarie di uomini qualunque e offre l’idea che ad ognuno è garantita l’opportunità di potervi essere protagonista. La televisione è il luogo del perpetuo autocompiacimento, dove la fama può valere il sacrificio dell’identità di sempre e l’agire per imporsi al grande pubblico la mimetizzazione del proprio naturale talento. Reality è la parola entrata nel linguaggio corrente che sta ad indicare la pretesa da parte dei media televisivi di catturare la vita reale per quella che è e trasmigrarla su schermo. Attitudine questa che ha finito per produrre solo un corto circuito evidente tra la realtà fattuale e il filtro televisivo che intende rappresentarla, dove ciò che ne è scaturito come effetto immediato, oltre alla costatazione che più vera dell’ esperienza vissuta sembra essere diventata ogni cosa che la televisione decida debba essere considerata come vera, è una crescente innaturalezza del gesto umano, che è come se avesse iniziato a mancare in fatto di scioltezza e di fluidità cognitiva, come se fosse guidato da una volontà superiore e sfuggente. Matteo Garrone è stato bravo a catturare proprio questo aspetto con sottile perizia registica, mostrandoci le vicende di Luciano Ciotola e parenti che, nel mentre sono impegnati a convivere con i problemi legati alla loro condizione sociale, sembrano recitare un copione scritto per loro da chi ha tutto l’interesse a veicolarne i desideri. Molto belli sono i primi venti minuti del film, quelli che vanno dai fasti del ricevimento nuziale al ristorante "La Sonrisa" (che si trova nella zona vesuviana) fino al momento in cui la famiglia fa ritorno nel fatiscente palazzo dove abita ed ognuno di loro è ispezionato mentre si spoglia degli orpelli della festa. E’ soprattutto in quelle occasioni che la realtà diventa reality, che la persona lascia il posto al personaggio e la verità delle sensazioni è soppiantata dall’innaturalezza del gesto, è in quel tempio del kitsch goffamente barocco che si consuma la farsa grottesca degli aspiranti vip, che la vita scimmiotta se stessa, che il sacro e il profano finiscono per diventare tutt’uno e il culto mariano si sovrappone all’ammirazione devota per un “Enzodelgrandefratello” (Raffaele Ferrante) qualsiasi. È naturalmente Luciano Ciotola (un ottimo Aniello Arena) a farsi carico di rappresentare nelle diverse sfaccettature caratteriali il “tipo sociale” voluto da Matteo Garrone. Da un lato, quando supera le soglie della legalità per mettersi a truffare le aziende produttrici di “robottini” da cucina al solo scopo di arrotondare lo stipendio, dall’altro lato, rispondendo presente ai richiami effimeri delle sirene televisive, per mostrarsi grande agli occhi degli altri, per rendersi un tipo “riconoscibile”, per “cercare di fare finalmente qualcosa di buono nella vita”. In entrambi i momenti, tra loro assolutamente complementari, Luciano combatte una lotta impari con il contesto sociale che lo circonda, una lotta contro la precarietà del suo presente e contro i totem consumistici della società del benessere, che gli sussurrano di alzare la posta delle proprie aspettative, di consegnarsi placido al flusso della corrente. Luciano è alienato dalla realtà che lo circonda e diventa un alieno esso stesso, in ogni istante crede di essere spiato dall’occhio indagatore del Grande Fratello televisivo e porta ad un livello tale di radicalità il desiderio suo di riuscire a sfondare nel mondo dello show business da sfuggire anche alla comprensione di quanti ne condividono appieno sogni e aspirazioni. Luciano rimane solo con i suoi sogni di successo, si estranea anche da quella famiglia che tanto lo aveva invogliato ad investire nella ricerca della fama televisiva, ora è il più convinto di tutti di essere fatto proprio per rispondere alle esigenze richieste dal modo dell’ intrattenimento televisivo, di poter cavalcare l’onda, dominarla, “spaccare” lo schermo. Medita il progetto di penetrarli i suoi sogni, di mischiarsi ad essi, confondersi tra di loro, vivere per loro. Ha voglia di farsi sommergere dalla luce abbagliante che sono capaci di emanare, una luce che diventa tanto più fioca quanto più ci si allontana dalle costruzioni di cartapesta che ne producono l’assordante bagliore. “Reality” è un grande film e Matteo Garrone si conferma un autore importante del cinema contemporaneo . A mio avviso, ha dimostrato di aver appreso la lezione pasoliniana sulle dinamiche proprie del linguaggio “massmediatico” e di saperlo “attualizzare” rappresentando con adeguata efficacia iconografica le sopragiunte implicazioni antropologiche.

 

 

 

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