Regia di Zhang Yimou vedi scheda film
L’ultimo film di Zhang Yimou. In questo moderno kolossal cinese, c’è, quale elemento classico del genere, l’atroce spettacolarità di un combattimento forsennato. E ci sono tutti i paradossi della guerra, i contrasti urlanti prodotti dall’allucinata commistione di vita e morte. Nel dicembre del 1937, durante il conflitto sino-giapponese, le truppe del Sol Levante conquistano la città di Nanchino al termine di un sanguinoso assedio: un orrore che, in questo film, è visto in parte dalle strade, tra i massacri di donne e bambini e gli attacchi suicidi ai carri armati, in parte dall’interno di una cattedrale, in mezzo a un popolo formato da una folla di giovani educande, un gruppo di prostitute d’alto bordo e un falso prete americano. Lo scempio delle anime e dei corpi, che non risparmia nemmeno quel luogo sacro, ha il colore del fango, su cui si posa la luce vivida di una spiritualità sommersa, che cerca timidamente di emergere dal buio. Tutto intorno, nel frattempo, imperversa una furia insensata, priva di ragione e di onore, di cultura e di religione, che risponde solo ad un’assoluta volontà distruttrice. Lo sguardo non è imparziale, perché la violenza di chi attacca risulta più vile, primitiva e cieca, rispetto quella di chi si difende, umanamente nobilitata dall’ingegno e dal sacrificio. Ma anche questa visione vistosamente sbilanciata contribuisce a rafforzare la rappresentazione di una realtà in cui tutto appare sbagliato e ambiguo, confuso dalla paura e dall’egoismo, oltre che dal caos dell’emergenza, che separa i simili e unisce i diversi. Se, per i soldati, la divisa identifica univocamente l’appartenenza ad un esercito, per i civili gli abiti sono un’insegna malleabile che, in quel mondo messo a soqquadro, può perdere la sua funzione (le mise sgargianti delle prostitute), o, al contrario, vedere accentuato il proprio significato (le sobrie tenute delle piccole allieve del convento, che divengono i delicati suggelli della loro innocenza), oppure, ancora, assumerne uno nuovo (la tonaca indossata per scherzo da John Miller, la quale gli attribuisce, suo malgrado, una nuova e fondamentale missione). Due cappotti gettati per terra possono servire a sviare gli inseguitori, una fascia infilata nel braccio può fungere da lasciapassare, e un travestimento può salvare tante vite. La stoffa – destinata a essere sporcata, lacerata, insanguinata - è il temporaneo ed inaffidabile riparo della popolazione inerme, esattamente come il rosone di vetro colorato – scheggiato dalle esplosioni e forato dai proiettili – lo è per la chiesa in cui i protagonisti della storia hanno trovato un labile rifugio. Le armi in mano alla gente comune sono impalpabili, e tutt’altro che invincibili: sono brandelli di tessuto inutilmente esibiti per avere pietà, ma sono anche la musica, la bellezza, la preghiera, la dolcezza d’animo, la commovente intensità di una supplica. Tra i deboli espedienti della disperazione rientrano anche la bugia e l’inganno, che offrono, se non altro, il beneficio di rinviare, magari di poco, il tragico incontro con l’inevitabile.
Dal romanzo 13 Flowers of Nanjing della scrittrice cinoamericana Geling Yan ci giunge, a onor del vero, una vicenda alquanto improbabile, e portata sullo schermo con qualche artificio di troppo. Tuttavia sceneggiatura e regia riescono a sviluppare la storia con accuratezza narrativa e convincente drammaticità. Zhang Yimou ce la racconta con sincero trasporto emotivo, affidando felicemente a Christian Bale il compito di reggere le fila di un complotto umanitario che, in fondo, è già, di per sé, un’originale opera di messa in scena cinematografica.
Questo film è il candidato cinese all’Oscar 2012 per il miglior film straniero.
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