Regia di Adam Wingard vedi scheda film
Stiamo sempre aspettando qualcosa di nuovo nell’horror. A volte escono film che vengono descritti come la nuova frontiera del terrore, come il punto di partenza di una nuova generazione che riscrive il genere. E puntualmente siamo delusi. Tutto è stato già visto, nulla differisce per intenti e linguaggio.
Il torture porn come è nato così è morto commentando comunque e con efficacia il passaggio traumatico e voyeuristico tra un’epoca e l’altra, tra la visione dell’orrore e la morbosità per la ricerca dell’immagine orrorifica; le ghost-stories sul modello di The Ring (2002), con i bambini fantasmi che tornano dal passato ad infestare case e persone sono ormai storie dal fiato corto, e lo erano già quando partì il filone a inizio millennio reinventando comunque tutto un genere; le possessioni demoniache hanno avuto la loro inflazione in questi ultimi anni regalandoci film fotocopia senza arte né parte, con qualche eccezione; i remake e i reboot dei grandi classici del passato sono invece la catastrofe peggiore perché senza idee, se non quelle riciclate, e senza consapevolezza del genere stesso e del potenziale politico e sociale delle storie, sono solo poco più che opere estetiche; i maestri dell’horror dal canto loro invece latitano e si concedono e ci regalano sprizzi di geniale autorialità solo in televisione, mentre le nuove leve, i nuovi registi faticano a confermarsi. La soluzione? L’antidoto? Credo fortemente che l’unico modo per salvare il genere sia tornare alla sua carnalità. Tornare all’horror fisico dei ’70, alla loro estetica e al loro linguaggio, ai loro temi ancora attualissimi come alle loro maschere. La fisicità del genere del terrore è l’unica vertebra del suo intero immaginario che non morirà mai per il semplice fatto che tutti facciamo e faremo i conti con il nostro corpo.
You’re Next di Adam Wingard sembra andare felicemente in questa direzione. I topoi del miglior horror d’annata ci sono tutti. Casa isolata, natura selvaggia o almeno inquietante e ferale, una famiglia disfunzionale, lo status sociale borghese medio alto se non altissimo, tematiche sessuali, assassini mascherati, scream girl eroina e tanta fantasia nella coreografia mortuaria – il migliore è il frullatore nel cervello. La prima immagine del film è una scopata, segue l’esposizione prolungata di un mezzo nudo femminile, parte una canzone, leitmotiv del film, che fa da contrasto al raccapriccio delle scene che accompagna, e poi inizia la mattanza.
La fredda e denaturata fotografia, la scelta di volti poco noti e soprattutto il linguaggio scelto dal regista, lento, contemplativo e anti-informativo contribuiscono a impostare il film come qualcosa di diverso, qualcosa che prende mitologie passate e le rifà senza cambiare e stravolgere o attualizzare per forza il discorso che nascondono, bensì curandosi della loro bellezza narrativa, del loro essere innanzitutto immaginario condiviso e riconosciuto. Wingard attraverso la forma ricontestualizza l’horror facendone il contenuto.
Se gli scivoloni arrivano verso il finale con la spiegazione un po’ inverosimile del motivo scatenante la mattanza e con qualche battuta posticcia, quasi surreale – o perché no?, forse anche questo gioco all’improbabilità è voluto dal regista per beffarsi del genere – il resto del film è solido, credibile e inquietante nella sua domestica e irreale claustrofobia.
La mascheratura degli assassini con le faccia di Tigre, Agnello e Volpe si inserisce nel ricco campionario di mostruosità senza volto che tanto piace all’horror e che ne innervano anche filosoficamente tutto l’impianto teorico. L’identità nascosta dell’assassino a causa di una maschera ci porta regolarmente a fare i conti con l’ignoto, lo sconosciuto, l’uomo nero che si nasconde sotto il letto. Il fatto poi che a tale copertura contribuisca una fattezza animale fa sì che tutte le angosce primitive con referenze al mondo bestiale inneschino di conseguenza paure ataviche e orrori incontrollabili.
Così come la casa, seppur non maledetta, diventa simulacro di vite benestanti come di corpi smembrati e devastati. Il mito della casa come luogo della mattanza se non è ancora caduto in disuso è perché tra le mura domestiche o di luoghi ameni, castelli o rovine che siano, si annidano sempre e comunque piccoli orrori quotidiani ingigantiti e trasformati in orrori titanici dal gioco proiettivo che il nostro inconscio fa e continuerà a fare incapace di spiegare l’inspiegabile. Soprattutto se ci è vicino, famigliare.
E You’re Next non sbaglia un colpo. Le soggettive dell’assassino, le maschere, tutta la fenomenologia legata alle esecuzioni e lo scenario di questa grande magione rustica, domestica, alcova di vipere, immersa in una natura semplicissima – boscaglia fitta quasi di tipo industriale per la regolarità dei filari – ma inquietante, sono realizzate con l’intenzione di renderle parte attiva e formativa dell’idea orrorifica del regista.
Inoltre, abbiamo forse la miglior scream girl in circolazione. Sharni Vinson, di terra Australiana, degli aussie ha la grinta terrica per non farsi mettere sotto. Non urla e non scappa. Sta zitta e lotta contro le belve che stanno massacrando la sua nuova futura famiglia. Con all’attivo tanta tv e solo un film horror, Bait – Shark 3D (2012) dove sguazza a suo agio tra famelici squali in un supermercato, e il terzo capitolo in 3D della serie Step Up (2010), lascia la tridimensione per un horror rurale, carnale, spietato, che sa scivolare con classe quasi lo facesse volontariamente. La sfida è vinta grazie a un corpo orrorifico tonico, adrenalinico, perfetto e mascolino che la rende sexy e femminile e seduttiva qualsiasi oggetto contundente o arma bianca impugni. La Vinson sembra l’unica faccia interessante in un oceano di scream girl che non sanno di nulla, lei che sa metterci una buona fisicità inclinata al genere e un certo fascino introspettivo grazie al gioco di sottrazione che fa con l’uso saggio del suo liquido sguardo castano.
La violenza svelata. La violenza restituita. La violenza riemersa. Questo incarna il gentil personaggio della Vinson – che assona con venom – e ci riporta ad un altro tema squisitamente horror e poi adattato ad altri generi più miti, o quasi. Dal primo Craven di L’Ultima Casa a Sinistra (1972) a Cane di Paglia (1971) di Peckinpah, ma a ben vedere ovunque un eroe le prende e poi le dà rivive il topos del ritorno del guerriero, anche in You’re Next la mattanza scatena mattanza, il corpo gentile e addomesticato dei civili si riappropria dell’istinto animalesco – quello delle maschere – e torna ferale, letale, assassino. E tutto questo non soltanto teoricamente, ma attraverso la perfezione registica, il gioco topicizzante degli elementi narrativi, l’intuizione visiva e il perfetto uso e taglio dei tempi orrorifici. Non può essere un capolavoro per la mancanza di novità tematiche e discorsive assolute, ma è ciò che di meglio l’horror ci abbia proposto in questi ultimi anni. E in questa prima metà del 2013 sembrano non essere in poche queste novità.
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