Regia di Sebastian Brahm vedi scheda film
Il reticente disorientamento di Raul Ruiz rivive in questo film cileno, tanto acerbo quanto difficile. La storia di un neuropsicologo in crisi si presta ad un viaggio circolare attraverso la memoria, seguendo connessioni che, anziché alimentare la creatività, imprigionano il pensiero nei vincoli dell’associazione per similitudine. I ricordi si sovrappongono, azzerando gli intervalli temporali, e creando un soffocante bugigattolo in cui gli errori commessi convivono sommandosi, senza alcuna possibilità di nuove, liberatorie soluzioni. La compresenza di più dati restringe il campo delle elaborazioni, come quando bastano tre parole messe in fila a veicolare la mente verso l’unico termine attinente a tutte: la terna piena, miele, mezza indirizza univocamente alla luna. Un’associazione logica raccoglie gli elementi acquisiti intorno ad un rigido schema deduttivo, che ripropone il noto senza produrre nuove invenzioni. Il momento eureka, con cui si conclude il processo costituito da punto morto, fissazione, incubazione, illuminazione, è il ricongiungimento forzato dell’esistente. È un’illusione di scoperta in un terreno già esplorato. È il finto progresso della mente che si è arenata nel circuito delle proprie teorie, troppo collaudate per risultare rivoluzionarie. Roberto Roman non gode più del prestigio di un tempo. I suoi studi sulla cosiddetta migrazione della memoria che, anni prima, gli avevano procurato una fama internazionale, non riscuotono più alcun successo. Forse il dinamismo mentale che aveva ipotizzato, il presunto movimento delle immagini immagazzinate nel cervello attraverso le reti di neuroni, davvero non corrisponde alla realtà. Le loro forme non cambiano, tutt’al più si uniscono per creare conflitti e paradossi, o ricomporre il puzzle di un quadro frammentario. I pezzi sparsi della vita di Roberto si ricombinano senza cambiare nulla. La sua infelicità deriva dalla scarsa malleabilità di un patrimonio di esperienze fallimentari, che si possono rivivere e mettere a confronto, ma sono sterili e statiche, perché disposte lungo percorsi prestabiliti. Vecchi amori tutti ugualmente sbagliati. Scelte di carriera fini a se stesse. Ogni svolta del cammino conduce all’interno di un fitto labirinto che blocca l’iniziativa. In questo film si parla poco, e quasi sempre per rievocare il passato, immodificabile, ed impossibile da mettere a frutto per costruire un futuro alternativo. La fuga è un’utopia, ciò che è stato continua a condizionare il presente, mortificando il genio. Quella raccontata da Sebastian Rahm è la storia dei limiti che racchiudono l’esistenza negli angusti spazi dei concetti definiti, delle frasi fatte, delle evidenze inoppugnabili. Un progetto che si arena nella paura di restare vittima delle sue contraddizioni. Un’opera che apre il discorso e ne introduce la crudele durezza, ma poi si spegne per mancanza di interlocutori. Roberto è solo con i suoi dubbi ed i suoi rimpianti. Javier lo analizza ma l’esperimento non riesce a spezzare quell’amaro ermetismo che non arriva a farsi suggestione. La poesia rimane strozzata in gola, come il pianto senza lacrime. Ed è l’unica sensazione, ruvida e asciutta, che questo film sa trasmetterci, in mezzo ad un quieto lago di emozioni incompiute.
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