Regia di Alexandre Bustillo, Julien Maury vedi scheda film
La coppia Bustillo-Maury torna sul luogo letterario del delitto, ovvero, il tema della maternità deviata. In À l’interieur (2007) c’era Beatrice Dalle, sorta di strega moderna, che anelava al nascituro della protagonista e il film era tutto imperniato sui simboli della gravidanza e sull’iconografia femminile, di cui il sangue era l’emblema più evidente. In Livide, benché la disfunzionalità del rapporto madre/figlia innervi indirettamente il sistema dei personaggi, a differenza di À l’interieur, c’è sempre una figura femminile stregonesca che ricorda l’argentiana Madame Blanc di Suspiria (Dario Argento, 1977), una vecchia ex maestra di danza classica, Madame Jessel, che nasconde una natura vampirica, ma la focalizzazione della storia è tutta per la protagonista femminile, una ragazza che deve badare alla vecchia ormai in stato vegetativo e che ha la malaugurata idea di cedere alle pressioni del fidanzato deciso ad entrare nella casa per scoprire il tesoro di cui tutti parlano. Purtroppo, per i giovani ladruncoli, il tesoro non è altro che la figlia di Madame Jessel, anche lei vampira, mummificata, e dai ragazzi risvegliata.
Se il film ha il pregio di giocare con le atmosfere delle vecchie ghost stories utilizzando il mito immortale del vampiro e i cliché e gli ambienti delle haunted houses, sfoggiando una fotografia e una messa in scena gratificanti per la ricerca estetica visiva, tanto da strizzare l’occhio sempre a Dario Argento e Mario Bava, va anche detto che il digitale rovina tutto e da perfetto racconto del terrore, di cui il prostetico è elemento di base e garanzia, il film diventa l’ennesimo tentativo di ravvivare il prodotto horror contemporaneo utilizzando canoni e linguaggi del passato. L’operazione è nobile, e Bustillo e Maury riescono là dove un’altra coppia francese dedita al riuso del glorioso cinema italiano di genere, Cattet/Forzani (Amer, 2009; L'étrange couleur des larmes de ton corps, 2013, Laissez bronzer les cadavres, 2017), non riescono. Potenziare l’estetica a scapito della narrazione non funziona. Bustillo e Maury invece, pur non toccando le vette di À l’interieur, preferiscono giocare sui moduli narrativi, i personaggi, i temi, i motivi più riconoscibili del genere e lasciare all’aspetto puramente estetico i simboli e le sintesi di una poetica horror comunque efficace. Peccato per la castità della storia e il body count poco riuscito.
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